«Quello davanti a te è Lurial», disse Eulasya, mentre la sua navetta si accingeva ad entrare nell'atmosfera del pianeta. La superficie sembrava veramente quella della luna, ma non c'erano crateri dovuti alla caduta di corpi celesti, forse per mancanza di una fascia di asteroidi come nel nostro sistema solare.»

Atterrammo in una città fatta di tante cupole metalliche e altre strane strutture aliene. Il cielo era viola come la vinaccia e la stella che illuminava il loro pianeta era rossa come una ciliegia matura. Non c’erano mari, non un albero, niente fiumi e i monti erano brulli e grigi. 

Un silenzio pesante aleggiava su quel mondo, come se anche il tempo sembrava faticasse a scorrere. 

«Eulasya, come mai non ci sono alberi sul tuo pianeta?», domandai con tono deluso.

Lei mi guardò per un momento, come se stesse pesando pesando le parole nel rispondermi. 

Il suo viso tradiva una leggera ombra di tristezza. «Tutti distrutti, e con essi sono spariti anche tutti gli animali. Gli unici esseri viventi di Lurial siamo noi truidi.»

«Che tristezza! Ma com’è accaduto tutto questo?»

«L’intelligenza non sottomessa all’amore è come un coltello senza il manico: ferisce la mano di chi lo adopera», rispose con voce melanconica.

«Cosa accadde di preciso?», domandai.

«Una guerra tra pianeti, con armi potentissime che usano la stessa energia che accende le stelle, spazzò via la maggior parte degli esseri viventi. Mari e fiumi evaporarono e si dispersero nello spazio, e con essi sparirono anche tutti gli alberi e gli animali.»

«Questo racconto mi riempie di tristezza, ma se non ci sono più alberi, voi truidi come fate a respirare in assenza di ossigeno?»

«Abbiamo gli alberi elettronici che ci forniscono ossigeno. Le vedi quelle strutture metalliche laggiù? Sono tronchi di ferro, e le foglie sono pannelli aldoriani che sfruttano un meccanismo di fotosintesi artificiale.»

Mentre mi diceva queste cose era atterrata sul suo pianeta. Scendemmo dal velivolo ed entrammo in una di quelle tante cupole metalliche tutte collegate tra loro. Eulasya mi portò in casa sua e mi presentò i suoi genitori e il suo fratellino Kimbli, un ragazzino biondo e con la pelle blu, come la sorella. Mi invitarono a mangiare con loro e la madre di Eulasya aveva preparato delle buonissime frittelle.

«Di cosa sono fatte queste frittelle?», domandai.

«Di farina!», rispose lei, come se fosse la cosa più ovvia dell'universo.

«Ma se non ci sono vegetali sul vostro pianeta, dove la prendete la farina?»

«Preleviamo il DNA dal vostro grano terrestre e poi con le nostre macchine riusciamo a generarla artificialmente.

«Ah, ecco perché vi avvistano sempre sui campi di grano!», dissi. 

Facemmo un giro nei sotterranei, dove c'era una specie di centro commerciale e, in uno di quei negozi, Eulasya comprò due collane con i pendenti che uniti formavano il loro simbolo dell’amicizia: due serpenti alati che uniti formavano un cerchio. Me ne regalò una e dopo avermela agganciata al collo, mi disse che era giunto il tempo di tornare. Il viaggio di ritorno fu veloce come quello di andata e in un paio d’ore raggiungemmo la Terra.

«Eccoci, siamo giunti a casa tua, Geremia», disse Eulasya atterrando nel campo di grano di mio padre.

«È stato molto bello viaggiare con te nello spazio», le dissi sospirando.

«È stato bello anche per me», rispose lei con un sorriso radioso, poi si voltò e si diresse verso il suo disco volante per tornare a casa sua. 

«Eulasya, Il grano di mio padre mi ricorderà per sempre il colore dei tuoi capelli!»

Si fermò, poi si voltò e tornò indietro. Si avvicinò a me e inaspettatamente mi baciò sulla bocca. Provai una grande emozione, la sua bocca non era rossa come la nostra. Era di un blu scuro come il mare d’inverno, ma calda e appassionata. 

Rimasi sorpreso da quel bacio inaspettato e mentre tutte le parole che avrei voluto dirle si erano bloccate dietro ai miei incisivi, salì a bordo del suo velivolo e sparì come un lampo nello spazio.

Quel bacio aveva acceso qualcosa di tenero nel mio cuore, avrei voluto che non partisse più, ma ormai era troppo tardi per fermarla. Entrai in casa che erano le cinque del mattino, e mi misi silenziosamente a letto. Dopo un po’ mi addormentai e mi svegliai alle dieci che il sole era già alto nel cielo. 

Per un attimo credetti di aver sognato tutto e sentivo mio padre che da fuori imprecava: «Dei dannati monelli hanno calpestato il mio grano, ma se li prendo…»

Mi toccai in petto con la mano e afferrai il pendente dell’amicizia che mi aveva regalato Eulasya.  

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