Era una tranquilla serata estiva, il cielo era trapuntato da milioni di stelle e un’incantevole luna gigante, alta verso ovest, gettava la sua pallida luce dorata sul campo di grano di mio padre, illuminando le spighe che emergevano dal buio sui loro steli ondulanti al vento. 

Ero nella mia stanza, intento a scrutare l'immensità dello spazio attraverso il mio telescopio, quando un oggetto in movimento nel cielo notturno catturò la mia attenzione: si trattava di un oggetto volante non identificato che si avvicinava a grande velocità verso la mia casa. 

Si fermò proprio sopra il campo di grano e cominciò a volteggiare su di esso, come se stesse curiosando tra le spighe o cercando qualcuno o qualcosa, poi, all'improvviso, un raggio di luce intensa fu sparato dal velivolo e colpì le spighe, facendole ripiegare sui loro steli in un istante, come se fossero state private della loro forza vitale.

Non potevo credere ai miei occhi. Lasciai il telescopio e corsi fuori, urlando: «Smettila subito di distruggere il grano di mio padre!»

Chiunque ci fosse a bordo di quel velivolo si era accorto della mia presenza, spense di colpo il raggio che ripiegava le spighe e dopo aver compiuto con l'oggetto volante un paio di giri sopra di me, si fermò a mezz'aria, ruotando su se stesso come una trottola volante. Un largo fascio di luce si accese sotto il disco e da quella luce antigravitazionale scese giù una figura aliena, probabilmente era il pilota di quel disco volante. Ma non era un alieno piccolo, verde e con il testone, come ci si sarebbe aspettati dai vecchi racconti di fantascienza. No. Ciò che scese dal velivolo era una ragazza extraterrestre con due braccia, due gambe e una testa, esattamente come le ragazze terrestri; e su quella testa una bellissima chioma bionda dello stesso colore del grano. La sua pelle era di un azzurro pallido e indossava una tuta color verde smeraldo, con sopra un corpetto di cuoio. Si avvicinò a me e con una voce dolcissima mi disse: «Come ti chiami, ragazzo?»

«Geremia», risposi, «e tu, come ti chiami?»

«Mi chiamo Eulasya e vengo dalla stella Aldor, quella che voi sulla Terra chiamate Proxima Centauri.»

«Come fai a conoscere la mia lingua?», chiesi meravigliato.

«Impariamo le vostre lingue, accedendo alla vostra rete internet», rispose lei con un sorriso. Ci fu un attimo di silenzio, dopodiché disse: «È stato un piacere conoscerti, scusami tanto per aver distrutto il tuo grano, ma adesso devo proprio andare.»

Mentre stava per andar via, la fermai e le dissi: «aspettami, per favore! Posso venire con te?»

«Cosa? Sei sicuro di quello che dici? Il mio mondo è molto lontano da qui ed io potrei anche essere pericolosa, ci hai pensato?»

«Non ho paura. Vorrei viaggiare con te nello spazio e vedere da vicino il tuo pianeta.»

«Bene! Allora non devi fare altro che entrare con me nella navicella spaziale e si parte!»

«Prima vorrei sapere una cosa: quando mi riporteresti a casa?», le chiesi.

«Facciamo due calcoli… due ore per andare, due per tornare e due per farti dare un’occhiata al mio pianeta… diciamo che domattina presto potrei anche riportarti qui.»

«Mi stai prendendo in giro, vero?», dissi in tono brusco, «Proxima Centauri è a più di quattro anni luce di distanza dalla Terra. Ammettendo che il tuo velivolo possa viaggiare alla velocità della luce, arriveremmo non prima che siano trascorsi quattro anni e torneremmo qui sulla Terra tra otto anni!», conclusi con convinzione.

«Velocità della luce? Ah ah ah… Antiquato!», disse lei, ridendo con tono di scherno, «Hai mai sentito parlare di velocità neutrinica? Se sì, allora sali a bordo, altrimenti addio, amico terrestre, e tanti saluti a casa!»

Ci pensai un attimo, ma poi mi feci coraggio ed entrai con lei in quel ascensore antigravidazionale che ci condusse all’interno di quel velivolo alieno. Era tutto meravigliosamente tecnologico: luci, tasti, monitor e leve di comando. Eulasya fece alcune manovre e il disco cominciò a sollevarsi verso l’alto, dopodiché con un movimento deciso, premette un pulsante rosso sulla sua destra e, in men che non si dica, ci trovammo nello spazio interplanetario. In un istante, il mondo intorno a noi  svanì e la Terra era già un puntino azzurro perso nel buio.

«Come si chiama il tuo pianeta?» chiesi, cercando di rompere il silenzio che avvolgeva il nostro viaggio.

«Si chiama Lurial», rispose Eulasya con voce calma. «È un pianeta grande più o meno quanto la vostra Luna e la sua superficie è molto simile a quella del vostro satellite, ma con sfumature e dettagli tutti da vedere.»

Continuammo a viaggiare, immersi in un una quiete profonda, mentre fuori dalla navetta scorrevano panorami sconosciuti. Pianeti sospesi nel vuoto che si muovevano silenziosi nell’immensità dell'universo e gli asteroidi, che si scontravano tra loro e che Eulasya deviava con la sua navicella come farebbe una macchina con le buche presenti su una strada. Sembrava quasi di vivere in un videogioco. Vidi il gigante Giove con i suoi vortici di nubi multicolori e Saturno, il famoso pianeta con gli anelli, che mi affascinava molto e stimolava la mia fantasia di astrofilo. Dagli oblò della navicella vedevo scorrere i pianeti in rapida successione come quando scorrono i paesaggi dal finestrino di un treno. Passata la nube delle comete, che segnava l'arrivederci al nostro sistema solare, ci trovammo per un tratto nel vuoto intergalattico.

All'improvviso, davanti a noi, apparve un piccolo pianeta, appena più grande della Luna. La sua superficie, liscia e grigia, sembrava riflettere la luce della loro stella, proprio come fa la Luna. Eulasya diresse la navetta verso di lui e la sua traiettoria mi fece capire che eravamo finalmente arrivati a destinazione. 

 

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