Lo conobbi nel 1978.
Andai da lui con grandissimo scetticismo, ma con la forza della disperazione: era l’ennesimo tentativo, forse l’ultimo, di trovare una cura alla mia asma bronchiale – diagnosticata come allergica – che mi costringeva a inalazioni serali di un broncodilatatore per riuscire a dormire  e al ricorso a iniezioni di cortisone nelle fasi acute.
Avevo girato tanto e avevo provato sulla mia pelle tutti tipi di rimedio previsti in campo medico ortodosso e alternativo, chimici e naturali.
Mi era giunta voce di questo medico che utilizzava “pastigliette, granelli e globulini ” e “infilava gli aghi” con grandi risultati, anzi “quasi miracolosi”. La sua fama si stava allargando attraverso diversi canali ma sostanzialmente, a quel tempo, all’omeopatia si rivolgeva chi le aveva provate tutte e aveva – come me – quasi perso ogni speranza.

Il colloquio fu inaspettatamente  lungo e molto diverso da quello che mi sarei aspettato da un medico.

Mi fece raccontare la mia storia, il lavoro, la situazione sentimentale, i miei sogni e le mie opinioni politiche. Mi fece molte domande, alcune delle quali assolutamente inaspettate: “quando vedi un quadro storto lo addrizzi?”, “ti piace il dolce o il salato?”, “hai i piedi freddi di notte?”, “sei permaloso?”, “quando ti arrabbi cosa fai?” Ed altre molto insistenti: “che hobby hai?”, “cosa ti piace fare quando sei solo?”
Solo alla fine mi visitò: guardò la lingua e l’iride, auscultò il cuore e le spalle, misurò la pressione. Ignorò tutte le carte che gli avevo portato (analisi, risultati delle prove allergiche, diagnosi e prescrizioni dei diversi medici a cui mi ero rivolto in quasi quindici anni di ricerca) e si mise a scrivere dopo un lungo silenzio pensoso.

Durante il colloquio mi raccontò una barzelletta. Lo avrebbe fatto sempre tutte le volte che ci siamo visti nei quasi 40 anni durante i quali l’ho frequentato. E io ogni volta avrei fatto finta di ridere.
Scrisse la prescrizione e me la lesse scandendo bene le parole sebbene la sua grafia fosse di gran lunga più intelligibile di quella di un qualsiasi altro medico. Capii molti anni dopo che era un rito, il momento in cui si saldava il patto terapeutico tra medico e paziente.
Non accennò alcuna diagnosi, né prognosi, né promessa di guarigione.
Solo un anno dopo e quattro visite (la cura durava 90 giorni) mi parlò della mia situazione diciamo così “clinica”, di qual era la possibile dinamica che mi avrebbe riguardato e mi spiegò la ragione dei rimedi che mi prescriveva più frequentemente.
Scoprii allora che l’essere umano, secondo l’omeopatia, è un organismo vivente unitario nel quale corpo e mente, contesto sociale personale e lavorativo, emozioni e stati d’animo, cibo e aria, determinano un equilibrio, alterato il quale, l’organismo manda dei segnali, diciamo così, di denuncia e di allarme. Ogni sintomo è un messaggio: reprimerlo senza rimuoverne la causa condannava, nella maggioranza dei casi, quell’organismo a un peggioramento del suo stato complessivo.
Sintomatologia che poteva essere di natura fisica o di natura psichica.
Mi appassionò il suo approccio. Lui lo chiamava “altro paradigma” che superava quello della causalità lineare postulato da “II principio della termodinamica”.
Partecipai ai suoi seminari e conobbi il fratello, Emilio, un pioniere nelle ricerche della fisica applicata alla biologia, in particolare per quel che concerne le caratteristiche fisiche dell’acqua nei sistemi viventi.
I fratelli Del Giudice misero a punto in quegli anni – sorretti dall’entusiasmo di molti giovani medici, farmacisti, studenti e semplici ascoltatori – un modello in grado di spiegare scientificamente il funzionamento dell’organismo vivente e di conseguenza il contributo che i rimedi omeopatici o bioenergetici potevano apportare per recuperarne l’equilibrio.
Mi sono reso conto solo dopo di aver avuto  la fortuna di partecipare, anche se solo come osservatore, a un periodo di ricerca fervida ed appassionata che ha prodotto un pensiero critico radicale nei confronti della medicina ortodossa e soprattutto della sua applicazione pratica.
Ho convinto moltissime persone ad intraprendere la “via omeopatica” alla cura. Con ottimi risultati, fino a coltivare l’illusione di aver scoperto la panacea nei confronti delle malattie degenerative, una specie di elisir di lunga vita per chiunque avesse deciso di intraprendere quella via.

Non è così, naturalmente. Ci si ammala e si muore comunque.

La mia asma è scomparsa, ma ci sono voluti anni; altri amici hanno avuto un immediato sollievo, una “miracolosa” guarigione, si sono meravigliati per la repentina scomparsa dei sintomi.
Periodicamente tornavo a Napoli per farmi fare una visita da lui.
E anche le sue domande non sono cambiate nel tempo: ha continuato a chiedermi se mettevo a posto il quadro che vedevo storto o se preferivo il dolce o il salato.

L’ultima visita l’ho fatta nel 2014, nello studio a Via Carlo Poerio, a Napoli.
Era morta sua moglie l’anno prima e il fratello Emilio qualche mese prima. Era un uomo distrutto.

Da quella ferite, da quella mancanze, da quello stordimento non si sarebbe più ripreso.
Era stato lui a insegnarmelo: rotto l’equilibrio psico-fisico-emozionale, l’organismo vivente è preda delle malattie degenerative.
Si ammala e muore.

Nicola se n'è andato la scorsa settimana. Sono riuscito ad abbracciarlo, già malato in modo irreversibile, venendo a Napoli a novembre dell’anno scorso.

Nicola Del Giudice ha curato, in quarant’anni, tutte le persone a me care: pilloline, pastigliette globuli e granuli sono diventati il lessico della quotidianità comune di gran parte delle persone che conosco.

L’omeopatia può servire a ristabilire un equilibrio e può guarire.

 

Anche raccontare storie può essere una terapia efficace.

La sto sperimentando stanotte, adesso, davanti al pc, scrivendo di Nicola Del Giudice, scienziato irriverente e pessimo narratore di barzellette.

E piangendo, finalmente.

Aveva proprio ragione Shakespeare:
“Date al dolore la parola; il dolore che non parla, sussurra al cuore oppresso e gli dice di spezzarsi.”

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