Il profumo dell’aria sembrava diverso, là fuori. Più aspro, penetrante. Le folate gelide, provenendo da misteriose direzioni, li colpivano come morsi. 
A lei bruciava la pancia, il seno sotto quello strato duro di pelle animale. I movimenti le riuscivano lenti e impacciati. 
“Aspettami qui, non ti muovere” le disse lui. La barba lunga, i capelli ispidi. I suoi occhi erano minuscole luci tremolanti. 
“Dove vai?” chiese lei prendendolo per un braccio. 
“A vedere cosa c’è qua attorno” le rispose, slegandosi dalla stretta. 
“Ho paura”. 
Non rispose. Non voleva dirle di averne fin troppa anche lui. La notte era immensa, sterminata, e si intuiva, dai fruscii sinistri, dagli schiocchi improvvisi, dai suoni mai sentiti prima, che doveva essere piena di insidie, di pericoli grandi e minuscoli ai quali avrebbero dovuto dare un nome. Questa volta per riconoscerli, e difendersi. 
Mosse un passo dopo l’altro, piano piano. Sembrava di sprofondare dentro a un cielo.
L’erba, onnipresente nel posto da dove provenivano, qui era rada, piccole pozze soffici alternate a pietre acuminate, zolle di fango duro, rami spezzati. Scalzo, strascicava i piedi. Si chinò a raccogliere un bastone. Lo batteva per terra, annunciandosi ai mostri infidi celati ai suoi occhi. Dietro ogni cespuglio, al di là di una siepe, nel fitto degli alberi e laggiù, in fondo, dove si vedevano altissime cime che infilzavano il cielo, doveva sicuramente trovarsi la loro recente e definitiva nemica: la morte mutaforma, dalle sue innumerevoli sembianze. Un animale, un fulmine, un frutto, l’acqua, il dolore.
Intravide un chiarore. Il riflesso della Luna su una parete di roccia, oltre un grumo di piante.

Si avvicinò, il bastone davanti. Quel muro grigio aveva un’apertura oscura. L’uomo sospirò. La sua donna era ancora viva? Nessun grido, nessun rumore inquietante si era alzato alle sue spalle. 
Si tuffò dentro quel nero. Odore di umidità, silenzio, il riverbero dell’aria tra le fenditure. Batté forte col bastone, contro i sassi, contro le rocce. Un battito d’ali rimbombò feroce, un piccolo rapace guadagnò l’uscita avvertendolo lugubre. Per quella notte, per la prima notte, quel buco poteva andare, pensò l’uomo.

Un conato di pianto morì in gola. L’immagine della loro ultima casa si sovrappose a quello scenario così scarno. Da quella notte niente più gioia: quella, e posti come quello, sarebbero stati casa. Loro due insieme. E questa era l’unica consolazione. 
Uscì dalla caverna, gli occhi abituati ormai al buio, cercò il passaggio tra le piante che lo aveva condotto fin lì. Lo imboccò. 
La donna stava ritta contro il muro di cinta, tremante. Era così fragile. Più piccola di lui, più sottile. Piangeva. Il suo cuore colmo di paura, tristezza, vergogna. All’uomo, nel vederla così, da sola, venne voglia di correrle incontro, stringerla, nasconderle il viso nel suo abbraccio. 
“Andrà tutto bene, non piangere” avrebbe voluto dirle. Ma non ci credeva neanche lui e non voleva mentirle. Non vedeva come il futuro potesse salvarli. Renderli un po’ felici, non come prima, giusto un po’. Si impose di non pensarci: intanto passiamo questa prima notte. Poi si vedrà. 
“Sono qui”, le disse quando era a pochi metri. La donna distese il volto, sollevata. “Sei qui”, in un fiato. 
Non gli chiese nulla, soltanto si avvicinò a lui, che iniziava il tragitto a ritroso. Non le disse della caverna. Non le disse dell’uccello lugubre, delle mille insidie. Camminava un passo avanti a lei, con la destra teneva il bastone e con la sinistra la sua mano. Procedevano piano. 
Prima dello schermo fitto di alberi, dietro cui c’era la caverna, si voltarono verso il muro di cinta. Alto, liscio, interminabile. 
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