Trascinando i suoi passi stanchi sulla sabbia aveva percorso sentieri di ogni dove, sentendo sempre dentro di sé il peso dell’assenza di senso.
E andava avanti, continuando a procedere a tentoni e osservando attonita i suoi piedi. 
Ancora e ancora, nei punti dove il suo andare si srotolava dietro di lei come un tappeto consumato dal tempo, lasciando sulla sabbia eterea e inconsistente orme difformi, tracce confuse e improbabili di percorsi stonati e dissonanti. 
Continuava a leggere al contrario il libro della sua esistenza: frasi che si sgretolavano nell’isteria di un vivere controcorrente, perché lei in fondo era questo e null’altro.
Contraddizione.
Aveva sempre creduto di dover essere qualcosa o qualcuno.
Catalogava se stessa, di volta in volta, reagendo agli stimoli esterni come in una sorta di reazione chimica sbagliata e sfuggente.
E poi c’erano i “forse”.
Questo succedeva quando osservava intorno a lei lo scorrere degli eventi, senza riuscire a incidere sui suoi giorni, senza tracce tangibili di quale fosse la direzione in cui stava andando, non comprendendone, in fondo, neppure l’intima ragione.
“Forse”, diceva a se stessa, “potrei essere leggerezza”.
Ma per quanto provasse ad elevarsi, imitando il bagliore lontano delle nuvole, i suoi piedi continuavano sempre ad essere radici nodose e il suo volo talmente incerto da essere immobilità.
“Allora”, disse a se stessa, “forse potrei essere pioggia”.
Ma per quanto il suo animo inquieto spremesse da sé ogni goccia del suo sudore, le sue mani continuavano ad essere buio e notte e il suo pianto talmente flebile da essere non senso.
“Non importa”, disse a sé stessa “allora sarò albero. Di me nutrirò la terra, sacra e immutabile e sarò ombra e frescura per offrire ristoro allo stanco viandante”.
Ma la terra le appariva sterile e il suo sorriso era spesso ammaccato.
Stanca e annoiata sedette a riposare le sue membra sulla linea azzurra dell’orizzonte.
Il silenzio dentro di lei era ormai diventato assordante.
Una colomba, piroettandole intorno, le si posò in grembo.
In quell’istante l’infinito, che forse le aveva sempre danzato intorno, fece capolino e fu in quel momento, proprio in quel momento, che lei percepì finalmente, l’urlo del vento.
Ed ecco che in quel momento, che a lei parve eterno nel suo vestito di lucida rugiada, i suoi occhi si schiusero al mondo, mentre il suo animo fragile come vetro lasciava filtrare dentro di lei immagini dai colori sgargianti.
Ogni cosa intorno iniziò a mutare di forma e di colore. Tutto era luminosità e trasparenza di luce.
E i percorsi intrapresi, ogni istante, ogni singolo giorno della sua vita, tutto era lì di fronte a lei, per assumere forme e colori cangianti.
I suoi sogni, le nuvole, la pioggia… il vento.
Percorsi dorati, strade difficili e ogni singolo momento.
Può forse sembrare strano, ma a volte anche un piccolo evento, che può sembrare insignificante ai più, può mutare la percezione che ognuno di noi ha di se stesso e di conseguenza del mondo.
Si cammina alla cieca, come sonnambuli nella notte, come barchette nell’immenso oceano, alla costante ricerca di un approdo, di un porto sicuro dove gettare l’ancora.
E quel porto, il più delle volte, lo si trova quando si smette finalmente di guardarsi ossessivamente intorno. 
Quando ci si guarda dentro, quando nell’istante argenteo e inconsistente di un battito di ciglia riusciamo a connetterci con noi stessi, a sintonizzare la frequenza sul ritmico battere del nostro cuore.
Ed ecco allora che tutto ci appare chiaro e cristallino.
Riusciamo a vedere la forma delle cose intorno a noi, ad ammirarne le geometrie, a percepirne l’intima essenza.
Assaporiamo sensazioni, ci nutriamo di vita e sentiamo.
Siamo consapevoli del tutto ciò che ci è intorno… consci dello spazio che occupa il nostro corpo, immersi nella trama del vivere, pregni di sostanza divina.
E sappiamo che non durerà.
Torneranno i giorni del dubbio e dello sconforto.
Tornerà la noia, con la sua patina inconsistente a velare di sé il nostro sguardo.
Ma allora sapremo che almeno una volta, nel nostro cammino, siamo riusciti ad ascoltare immobili l’urlo del vento. E la meraviglia di quell’istante, ci diremo allora, ci è rimasta aggrappata dentro.
Piangeva e rideva.
Riprese il suo cammino e ora le sue gambe erano leggere e veloci.
Aveva smesso di guardare indietro, e ora il suo sguardo si perdeva in lontananza, oltre le fronde degli alberi, correva e danzava, come i gabbiani nel blu.
Se non poteva essere leggerezza, pioggia o albero, sarebbe stata, molto semplicemente, sé stessa.
 

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