«Durante la notte era per le vie un va e vieni affaccendato, un picchiare alle case, un chiamare sommesso i compagni, ignari della novità, un sussurrio che a mano a mano diveniva come rumore di fiume che ingrossa nella sua corsa, e in mezzo a tutto questo un lieto suono di cornamusa.
Alcuni civili, atterriti da quei segni, travestiti, ebbero a ventura di trovare scampo nella fuga, facilitata dal denaro o della pietà di amici contadini.»
La mattina del 2 agosto, giovedì, il paese si trovò militarmente assediato da ogni parte. Chi voleva uscire era fatto tornare indietro con le buone o con le cattive: «Dobbiamo dividerci i beni del Comune, gridavasi, questi signori ci hanno succhiato il sangue nostro, ce lo devono restituire».
«In paese era grande agitazione e scompiglio; un correre qua e là popolarmente, tumultuaria­mente chiamando e invitando alla sommossa. «Chi non è con noi e contro di noi». «Guai a chi è contro il popolo!».
E molti di buone famiglie borghesi, volenti o nolenti, ingrossavano lo stuolo dei faziosi.
«Verso mezzogiorno la piazza vicino al Casino dei civili, era un nero bollimento. Un’onda di popolo incalzava e contrastavasi mugolando e urlando: Vogliamo la divisione delle terre.»
«Giunsero dai boschi i carbonari con le loro grandi accette. - scrive un testimone oculare, il filo borbonico padre Gesualdo De Luca - Alle ventitre del giorno si uniro­no armati sul largo di S. Vito i masnadieri ed i costretti da quelli. Suonarono quella campana a stormo, e tosto divisi in due falangi scesero nel paese.
La più grossa scese a sinistra per la via dei Santi, fermossi più volte, tremando verga a verga, pel sospetto di aversi scariche di fucilate dalle case dei ricchi.
Ma quando tra palpiti e furore percorse libere le strade giunsero al Casino di Com­pagnia dei civili, e lo trovarono sgombro; un delirio febbrile l’invase, guastarono ogni cosa di quel luogo, e corsero agli incendii ed ai saccheggi.»
Fra posti di blocco istituiti per evitare la fuga dei "cappelli" e gli incendi del teatro, dell’archivio del Comune (posto allora nei locali del Collegio di Maria all'epoca adibiti a sede della Cancelleria comunale), del "Casino dei civili" (alla fine furono 46 le case incendiate), i rivoltosi, come branco di lupi famelici, desiderosi di vendette covate e tramandate di generazione in generazione per secoli, di sangue e di rapine, invasero le strade; sbucavano da ogni vicolo, saccheggiavano, incendiavano, uccidevano.
«Nicolò Lombardo, - scrive Salvatore Scalia - che si è battuto e ha sofferto per la causa dei comunisti, davanti a quell’esplosione incontrollata di ferocia si sente perduto: i suoi seguaci non sono più dalla parte del diritto. La loro causa non può più essere la sua. “Cercò di ammansire quelle belve”, scrive Benedetto Radice che guarda i rivoltosi con gli occhi dell’avvocato.
Ma invano: la rivoluzione, che aveva ardentemente sperato e gli era sembrata a portata di mano con la venuta di Garibaldi, si muta repentinamente in una tragica disillusione.»
La prima vittima del furore popolare fu la guardia municipale Carmelo Luca Curchiurella, trucidata vicino al Carcere Bovi, perchè andava prendendo nota dei preposti al funzionamento e custodia dei posti di blocco.
«Stanchi - continua il Radice - irrompono nelle cantine, aperte dai proprietarii per evitare il sacco alle loro case. Mangiano, bevono rinfrescano le arse gole, ed ebbri alla fine di vino e di furore, al comando degl'improvvisati generali, come torrenti di lava, dagli squarciati fianchi d’un vulcano, corrono qua e là a nuovi saccheggi, a nuovi incendi.»
In una fitta sequenza di scene feroci, fra il 3 ed il 4 agosto, furono crudelmente trucidati civili e "cappelli" più un rivoltoso (Nunzio Bertino, di 36 anni) colpito per sbaglio da una pallottola vagante.
Garibaldi diffuse così il suo proclama
Siciliani! "Io vi ho guidati una schiera di prodi, accorsi al­l'eroi­co grido della Sicilia, resto delle battaglie lom­barde. Noi siamo con voi! e noi non chiediamo altro che la liberazione della vostra terra. Tutti uniti, l'opera sarà facile e breve. All'armi dun­que! Chi non impugna un'arma è un codardo e un tra­dito­re della patria. Non vale il pretesto della man­canza d'armi. Noi avremo fucili; ma per ora un'arma qualun­que basta, impugnata dalla destra d'un valoroso. I municipi provvederanno ai bimbi, alle donne, ai vec­chi derelitti. All'armi tutti! La Sicilia insegnerà ancora una volta, come si libe­ra un paese dagli oppressori colla potente volon­tà d'un popolo unito". 14 Maggio 1860 G. Garibaldi
L’elenco dei brontesi che "corsero ad arruolarsi sotto la bandiera" di Garibaldi ci è fornito dallo storico bron­tese Benedetto Radice nelle sue “Memorie sto­riche di Bronte”
«Furono Garibaldini: Sebastiano Casella, Schiros Vincenzo, Giovanni Longhitano Cazzitta, Luigi Man­giovì, Nunzio Meli fu Antonino, capraio, Pasqua­le Pettinato, Vincenzo Mazzeo, fabbro, Nunzio Pinzo­ne, Giuseppe Lombardo Emanuele, Placido Gangi, Giu­seppe Gangi, Salvatore Zappia Biuso fu Giovan­ni, che, ferito alla battaglia del Volturno, mutò la ca­mi­cia rossa nel saio del Cappuccino. I fratelli Mariano ed Arcangelo Sanfilippo che si era­no già arruolati a Palermo e gli altri due fratelli Pie­tro e Filippo, che, cercati quali promotori del tumul­to, trovarono asilo sotto la bandiera. Si arruolarono pure a Messina i caporioni delle stra­gi dell’agosto; Giosuè Gangi, Ignazio Quartuccio, Ar­cangelo Attinà Citarrella, Giuseppe Attinà Citar­rella, Nunzio Meli Fallaro, ma la camicia rossa non li salvò. E Salvatore rimase anch'egli nella polvere fra il sangue dei suoi compaesani, lui, che aveva creduto nella libertà. Accanto a lui i chicchi di pistacchio, che germogliarono in quella terra quasi a voler ricordare la strage di quegli uomini e la sconfitta di Salvatore, il poeta analfabeta.

 

 

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