Prima si toglieva il maccaturo, seduta lontano da occhi indiscreti, poi cominciava a levare le forcine che reggevano la pesante crocchia di capelli.

Quando tutte le forcine erano state recuperate le due lunghe trecce cadevano a toccare terra. Allora pazientemente bisognava disfarle.

A volte mi permetteva di aiutarla e poi potevo ammirare l'inusuale spettacolo del suo dolce viso incorniciato dai lunghissimi capelli ondulati, ancora corvini malgrado l'età.

Bisogna dire che non era un'operazione quotidiana, intrecciati stretti e ben coperti non avevano bisogno tutti i giorni del pettine, ma ogni tanto sì e allora la principale preoccupazione di mia nonna, dopo che la crocchia era stata riformata, era di recuperare dal pettine ogni capello, li rigirava su indice e medio fino a farne una matassina che poi bruciava accuratamente.

Mai lasciare i propri capelli in giro, mi spiegava, se una janara ne fosse venuta in possesso avrebbe avuto su di te potere di vita o di morte.

Le janare facevano parte della nostra vita quotidiana, ed erano una bella seccatura.

Bisognava tenersele buone perché potevano diventare pericolose.

Per riconoscerle dovevi riuscire a fissarle negli occhi perché nell'iride ti ci riflettevi capovolto, e poi l'indizio principale era che per essere janara dovevi essere nata la notte di natale a mezzanotte in punto.

Una nostra vicina povera in canna che aveva questa non piacevole nomea riusciva però a sfruttarla a suo favore. Era sempre in giro a chiedere due patate, una pianta di insalata, un uovo e nessuno aveva il coraggio di rifiutarglielo per paura del malocchio.

Una volta che mia nonna aveva esitato, le aveva detto:

"Attenta Iolanda, pe' 'nu pretusino te pierdi 'na menesta."("per una foglia di prezzemolo rischi di perdere un ben più pregiato cavolo spigarello").

Dopo questa non troppo velata minaccia mia nonna non ebbe più il coraggio di rifiutarle nulla.

 

Il passatempo preferito delle janare era, dopo essersi spalmate le ascelle con un olio speciale, volare.

Entravano poi di notte nelle stalle e se trovavano un cavallo di loro gradimento lo cavalcavano tutta la notte in corse sfrenate, divertendosi nel frattempo a intrecciare le loro criniere in fitte treccine.

La mattina lo riportavano nella stalla, ma quando il padrone andava a prenderlo per il lavoro nei campi, oltre alla sorpresa dell'acconciatura rasta, lo trovava talmente sfinito e sudato da dover rinunciare per quel giorno a farlo lavorare.

Eppure per impedire alle janare di entrare bastava mettere dietro a porte e finestre una scopa di saggina o un sacchetto di sale o di sabbia.

Non potevano entrare se prima non contavano i fili della scopa o i granelli di sale o di sabbia e così le ore passavano, faceva giorno e dovevano tornare a casa.

Nessuna giovane mamma dimenticava di "sigillare" in questo modo ogni sera le entrate di casa. Infatti oltre che per i cavalli le janare avevano una passione per i neonati. Li rapivano la notte dalle loro culle, li riportavano solo la mattina dopo esserseli palleggiati l'un l'altra, possibilmente su un fuoco acceso.

Quando i bambini deperivano senza motivi apparenti, le anziane sentenziavano:

"L'hanno preso le janare ".

All'epoca per ogni bimbo malformato, con la gobba o una gamba più corta, genitori e nonni giuravano che era perfettamente sano alla nascita, ma poi lo avevano preso le janare........

 

Se le janare erano un problema, con i mazzamauriegli si poteva convivere. Erano le anime dei bambini morti senza essere battezzati, di solito vestivano interamente di rosso ed erano dolci e servizievoli, solo se li facevi arrabbiare potevano farti qualche dispettuccio.

Una volta un pover'uomo che non poteva permettersi altro fu costretto a prendere in affitto una casa notoriamente occupata da un mazzamaurieglio. Cercò all'inizio di tenerlo nascosto alla moglie, ma questa lo vide e non essendo coraggiosa come lui, tanto disse e tanto fece che lo convinse a cambiare di nuovo casa.

La mattina i due sposi raccolsero le poche masserizie su un carretto e si prepararono a trasferirsi. Si affaccio una vicina alla finestra:

"E così avete deciso di andarvene?"

Dalle masserizie sul carretto sbucò la testa del mazzamaurieglio:

"Si, andiamo a casa nuova!" rispose.

A quel punto ai due sposi non restò che riportare dentro le loro cose rassegnandosi ad allargare la loro famiglia a quell'inusuale membro.

 

Un'altra anima pura era quella dell'Urio, un enorme serpente con la testa di bambino, che viveva nel cavo di un ulivo centenario sulla montagna.

Le donne che andavano a raccogliere le ulive gli portavano una tazza di latte per tenerlo buono. Chi gli avesse fatto del male sarebbe stato maledetto, lui e i suoi discendenti per sette generazioni.

Un giovane spavaldo che non credeva a queste cose lo fece uscire attirandolo con del latte e gli sparò uccidendolo. La sua fidanzata non se la sentì di condividerne la maledizione e lo lasciò. Dopo qualche tempo fu trovato impiccato sotto quello stesso ulivo.

 

C'era poi, sotto un ponticello dell'unica strada che portava al paese più vicino, l'anima di un monaco che lì era stato ucciso e che, non avendo altro da fare, disturbava gli sventurati che avevano necessità di passarci di notte.

Una sera mio padre, un ragazzino neanche troppo coraggioso, fu inviato dal nonno in paese a comprargli le sigarette. Faceva molto freddo e il nonno gli fece indossare il suo cappotto.

All'andata c'era ancora luce e mio padre arrivòo al paese sulla vecchia bicicletta senza troppi problemi, ma al ritorno era ormai buio.

Giunto sul ponte del monaco calcò più in fretta sui pedali, ma ad un certo punto si sentì tirare il cappotto da dietro.

Ormai in preda al panico cercò di pedalare più velocemente, ma niente, la bici era bloccata e la presa sul cappotto sempre più forte.

Caduto a terra a mio padre non resto che farsi a quattro zampe e trascinandosi dietro la bici l'ultimo tratto di strada.

Solo quando fu al sicuro nel cortile di casa ebbe il coraggio di guardarsi indietro per accorgersi che il lungo cappotto era rimasto impigliato nella ruota della bicicletta, tirandolo e facendolo cadere.

 

Questo episodio fu molto utile perché portato come prova da quelli che già non credevano ai fantasmi che a tutto c'è una spiegazione, mentre per quelli che già ci credevano fermamente era la prova lampante della loro esistenza, perché solo il monaco aveva potuto infilare il lembo del cappotto negli ingranaggi della bici giusto al momento del passaggio sul ponticello.

 

 

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