Mi alzo in ritardo. La prima sveglia non ha suonato, perché si è scaricato il telefono. Suona la seconda sveglia, il tablet, che è sempre impostato per suonare mezz'ora dopo. Mi ripeto che devo comprare un oggetto che faccia solo da sveglia, che vada a batterie e che non dipenda da una carica elettrica almeno tre volte al giorno. Magari uno di quelli a forma di palla, così anni’80, da scagliare in caso di nervi.
Anche se la mia passione sono le sveglie che proiettano il cielo stellato e fanno i rumori della natura. Tutta la vita le onde del mare, metterei.
Mi alzo di fretta, rischio di cadere dal soppalco perché, in dormiveglia, qualcosa mi fa credere di dormire ancora in un letto a un metro da terra. Sono dieci anni che non mi capita.
Scendo e organizzo i minuti con precisione chirurgica: apro l'acqua della vasca, nel frattempo metto a bollire la tisana che mi porto dietro ogni giorno e metto sul fuoco la caffettiera da dodici, solo per me.
Bagno. Interrotto dal fischio del bollitore. Esco di corsa. Mentre infilo l'accappatoio con una mano, con l'altra spengo caffè e tisana. Verso il caffè nella tazza, deodorante, maglietta, mutande. Radio Popolare. Sedia, biscotti al cacao, senza uova e latte. Non per simpatia vegan, per puro e semplice gusto. Sono magnifici.
Finisco il caffè, guardo l’ora, mi metto un vestito, mi sta da cani. Riguardo l’ora. Devo filtrare la tisana e metterla nel thermos. Lo faccio dopo, così è più saporita. Frugo nei vestiti buttati sul divano. È ora di rimetterli o nell’armadio, o nel cesto della roba da lavare. Lo faccio domani. Silvestra miagola, mi guarda male. Devo cambiare la sabbietta. Guardo l’ora. Lo faccio stasera. Appena il telefono si ricarica: messaggio di una collega. Alle otto del mattino me l’ha mandato. “sei sveglia?”. Ansia. Che è successo?
Richiamo. Non è successo nulla di grave, solo uno scambio di belle idee balzatele in testa mentre guidava. Voglio un biscotto, ma il filo del telefono è troppo corto. Va beh, lo stacco, tanto la batteria terrà. Lo faccio. Cade la linea. Però ne è valsa la pena. Mi riattacco. Il telefono ci mette un minuto a riaccendersi. Nel frattempo finisco il caffè, mi infilo una gonna e una maglietta. Mi guardo allo specchio. Metto il pin e schiaccio ok. La tazza nel lavello. Richiamo Nadia, tiro fuori la borsina dei trucchi. Guardo l’ora.
Infilo gli auricolari mentre lei risponde: “stavo parlando da sola da cinque minuti; dove sei rimasta?”.
Mi trucco mentre parliamo. Sovrappensiero metto la matita anche nell’occhio che mi sono ferita giorni fa. Dolore e fastidio, mapporc..
Continuiamo a parlare mentre strucco delicatamente l’occhio di Rocky Balboa. Appendo il telefono. Guardo l’ora. Ora è davvero tardi. Riempio la borsa di tutti gli oggetti che mi serviranno nelle prossime ore. La lampo non si chiude. Dove metto il portatile? La borsa della spesa. Va beh, mettiamolo lì.
Spengo la radio, le luci, prendo un giubbotto perché probabilmente pioverà. Metto via i biscotti, schivo Silvestra che si lamenta per la sabbietta sporca. Le apro la gattaiola, così almeno se proprio hai schifo la fai nel vaso di beniamino del vicino, ok?
Esco, chiudo a chiave. Sono in ritardo, scendo di corsa le scale.
La tisana! Non l’ho filtrata, non l’ho messa nel thermos, insomma, non ce l’ho. Mi giro per tornare. Guardo l’ora. Mi rigiro ed esco, corricchiando.
La macchina non è vicina. Corricchio e schivo tram che escono dal deposito, portinai che spazzano il marciapiede davanti al portone. Raggiungo la scuola elementare dove di solito voto (bei momenti), giro a destra. Sono incastrata. Davanti a me c’è il terrore di tutte le persone di fretta. Mamme. Un piccolo plotone. Tre. Accessoriate di passeggino e bambino griffato sopra; ovviamente in riga, casomai potesse esserci possibilità di passaggio tra il muro e la balaustra che costeggia il marciapiede per evitare che i bambini si suicidino sotto le macchine (ma i bambini ci passano sotto, sono gli adulti che ci vanno a sbattere sotto la cintola!). Desisto e le osservo: camminano con flemma. Hanno perfette messe in piega e abiti senza neanche una patacca di caffè. Guardo il mio orlo col filo che penzola, che mi sono dimenticata di cucire.
Sorridono e parlano lentamente. “dove andiamo, da Cherubini o alla Bakery?” “No sono a dieta alla Bakery poi non resisto” “Dovresti venire ad Ashtanga con me, così vedi come bruci” “Eh lo so, ma Pilates è alla stessa ora, preferisco”. Arriviamo all’angolo; prego che non girino a sinistra. Girano a destra, evviva. Le distacco riprendendo il mio passo. Mi fermo e mi volto a guardarle. Hanno fatto si e no venti centimetri, nel frattempo. Camminano lente e beate.
Riprendo a camminare. Mentre salgo in macchina mi dico che ho sbagliato tutto nella vita, ecco cosa dovevo fare: fare bambini ricchi e camminare domandandomi se il gyrotonic faccia al caso mio e mi consenta di mangiare una red velvet al giorno, continuando ad entrare nei miei pantaloni beige taglia 42. Camminerei lentamente, non conoscerei la tachicardia, il ritardo, l’angoscia del clacson, l’agenda coi post-IT, la macchina con scenografie da 1000 chili da scaricare in cinque minuti per non arrivare tardi all’appuntamento successivo, la ricerca selvaggia di connessioni ad internet per poter visionare il preventivo (richiesto oggi, per essere pronto per IERI) che Martina mi sta mandando tramite e-mail dall’isola greca in cui è riuscita a concedersi una settimana di vacanza. Nel frattempo accendo la macchina, gli auricolari non li trovo. Mentre esco dal parcheggio faccio due telefonate. Le mamme sono ancora visibili. Continuo a pensare: ho davvero sbagliato tutto. Bambini ricchi, ecco la risposta per non avere un infarto. Mi immagino, tutta di beige vestita, shatush e Fendi, colf e magari pure un amante giovane.
Mentre faccio il terzo numero di telefono e metto la freccia si sovrappone una telefonata in entrata. Un numero sconosciuto. Rispondo. Un teatro vuole il nostro spettacolo. Buone condizioni (non è epoca per dire “ottime”: ci accontentiamo di “buone”). Sono molto interessati. Propongono date. Mentre guido le segno sull’agenda; tenendo il telefono tra la spalla e l’orecchio, il mio lobo, grazie alla rivoluzione del touch screen, schiaccia il tasto “muto”. Non mi sentono. Rischiaccio “muto” e finisco la telefonata appuntando le date proposte. Ricevo un’altra telefonata: una ragazza che vuole studiare con me perché un mio collega che stimo moltissimo le ha parlato di me e l’ha incoraggiata a contattarmi. Fissiamo un incontro.
Telefono agli attori; alcuni li trovo, altri non rispondono, allora mando loro messaggi whatsapp. Rispondono con un tripudio di emoticon. Siamo una squadra fantastica, di persone belle.
Appendo il telefono e il cuore mi batte forte. mi guardo allo specchietto perché sono spettinata e sto andando a un appuntamento di lavoro. La mia faccia sorride. Sorride molto. Le guance sorridono, le ciglia sorridono, i denti sorridono. Il petto si gonfia di un respiro pieno e rotondo, che provoca un altro, infinito, sorriso.
Mi viene in mente che quando sono salita in macchina stavo pensando a qualcosa. A cosa stavo pensando? Non riesco a ricordare.

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