“Per fortuna ho la scrittura. “.Pensai.

Guardai il foglio felice di ciò che avevo scritto, in barba a quel fanfarone da premio Nobel di Hemingway per cui, ” La prima stesura di qualsiasi cosa, è merda.”.

Avevo passato la mattinata a scrivere il breve racconto che mi era balenato in testa all’improvviso, come un automa lo avevo buttato giù.

Per me era decisamente un periodo nero, pochi soldi, nessuna donna, l’ultima era volata via convinta di una mia doppia vita e ora anche il riscaldamento aveva dato forfait, ma   ciò che mi faceva più male, era che mancava una settimana a natale e mi trovavo solo e senza speranza di requiem.

“Cristo come mi mancate tutti, non sopporto l’idea che non ci siate più, che per un motivo o un altro abbiate lasciato l’unica persona sincera e amica che avevate.”.

Mi appoggiai alla finestra e guardai fuori. Il vialetto che portava oltre il giardino era ben curato, l’ultimo giardiniere   assunto da Zelda era una schiappa, mentre questo preso dopo la sua morte, impeccabile nel suo lavoro, perfetto come personaggio di uno dei miei romanzi.

“Già Zelda, mia moglie, la mia adorata e sfortunata moglie, prima la schizofrenia e poi l’incendio che me l’ha portata via, e pensare che le avevo perdonato anche quella scappatella con quell’aviatore francese… povera mia piccola Zelda.”.

Appoggiai una mano sulle sbarre della finestra che avevo fatto mettere quando ancora volevo curarla io e non era in odore di ricovero.

“Tu sei stata il mio unico vero amore…”. Balbettai.

“… anche quel pazzo di Ernest aveva fatto un pensierino sul tuo di dietro, ma il tuo carattere l’ha fermato.”. Sghignazzai soddisfatto.

“… per spaventarlo dovevi essere proprio pazza.”. 

Risi più forte alla mia battuta e mi tornò in mente la disavventura in Francia quando con Hemingway feci un giro in macchina sentendomi male e il fanfarone mi prese la temperatura con un barometro, si un barometro… o almeno pensavamo che lo fosse. Gli anni ’20, i meravigliosi anni della nostra gioventù, pieni di dannazione e sregolatezza, scampati alla guerra potevamo dominare il mondo, bere tutto l’alcool dell’universo e svegliarci sobri e pronti per capolavori.

“Il Grande Gatsby… che follia!”. Sibilai.

Avevo scritto quel romanzo in un sol fiato e i soldi che mi aveva fruttato con i diritti del film, ci avevano permesso di vivere alla grande.

“Ahhh…la vecchia cara Europa, la Costa Azzurra e l’Italia.“.

Roma ci aveva accolto come una madre dopo il tentativo di Zelda di suicidarsi, una cosa da poco, niente di definitivo direi, solo un tentativo per farsi perdonare l’aviatore. Dal canto mio non ho avuto mai problemi a riguardo, con gin e whisky si può perdonare anche la più infedele delle consorti. E così feci, ma esagerai e dopo una rissa con un tassista della Città Eterna, tornammo in America. L’età del jazz crollò con la borsa e in seguito arrivò la depressione.

“Ma è storia stravecchia, ora non esiste più niente, un'altra guerra ha spazzato via i belli e dannati, gli amori e gli amici.”

Scrissi qualche altra riga del racconto e riposi la penna nel cassetto della scrivania. I miei mobili non erano più quelli della Golden age, dopo che tutti mi credettero morto, ogni cosa fu venduta. 

“Io morto? Ma che stupidaggine. L’infarto che quei medici diagnosticarono, non era altro che un insulto al cuore, roba di poco, sono rimasto buono buono un po’ di tempo e poi sono tornato, ma quell’assenza dalle scene mi ha fatto sparire agli occhi del mondo.”.

“Signor Fitzgerald… la sua cena.”.

Guardai il domestico con il cibo su un vassoio di plastica; tutto era cambiato e a me non restava che abbassare il capo e cavalcare l’onda della nuova era.

“Grazie Alfred, appoggia pure lì, ti chiamerò più tardi per il tè. Puoi andare.”.

Il cuoco era scadente e tutto ciò che cucinava sapeva di plastica; ripresi a lavorare, era ora di scrivere il continuo di Tenera è la notte.

“Portato il vitto a Fitzgerald?”.

“Si, fatto! Un uomo simpatico, mi ha chiamato Alfred, ma cos’ha da scrivere sempre?”.

“Non so cosa dire, è stato trovato sei mesi fa in una casupola in montagna, solo. Quando lo hanno portato qui, abbiamo fatto l’impossibile per rintracciare qualcuno che lo conoscesse ma niente, nessuno sa chi sia.”.

“E se fosse veramente Fitzgerald?”

“Ma sei stupido o cosa? Lo scrittore è morto negli anni ’40 e a quest’ora, ammesso e non concesso che fosse lui, avrebbe più di 130 anni.”

Lo guardarono dallo spioncino della porta, mentre mangiava e scriveva. La psichiatria era un posto che, per certi versi, aveva al suo interno uomini meravigliosi, artisti senza tempo. E  l’uomo che si credeva Fitzgerald, era uno di loro. 

 

 

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