Sto pensando che, visto che sono sveglio e la città è
deserta, forse è il momento giusto per ricominciare con l’abitudine che avevo quando ero
all’università: una corsetta leggera per il parco. L’idea mi elettrizza (o forse è il caffè che è arrivato
dove doveva arrivare?) e in 5 minuti sono pronto per uscire. Il mio iphone bianco si trasforma in
una compilation di emozioni e adrenalina in un paio di touch. Se ce ne fosse ancora bisogno, ora
sono più sveglio che mai. Esco in strada e noto che ogni singolo negozio è chiuso, sprangato. In
giro sono veramente l’unico essere vivente a rappresentare una categoria che entro il 2050
secondo gli esperti sfonderà quota 10 miliardi. Mentre ragiono su questi dati e sul perché li ricordo
(reminescenze del corso di Demografia Economica, concludo), sulle note di “little by little” arrivo al
parco. Lì c’è sempre un piccolo viavai di bambini, giovani madri, meno giovani nonni, e chi più ne
ha più ne metta. Ma non oggi. Oggi ci sono solo io, il mio fiato corto (non ho più l’età, e dirlo a 26
anni è imbarazzante), le mie canzoni e una strana sensazione di crescente disagio. Dove sono finiti
tutti? C’è stata una festa finita tardi a cui non sono stato invitato? Non mi sono mai sentito così
solo, neanche quella volta che quand’ero matricola mi ero fatto un chilometro a piedi alle quattro
del mattino dopo una serata in una discoteca che avevo pensato essere molto più vicina a casa.
Forse lo avrete già capito, prendo decisioni improvvise. E lo faccio anche adesso: decido di andare
in un posto in cui sono sicuro di trovare persone: in ufficio. Avete visto il sequel del fortunato film
“wall street”? Il denaro non dorme mai. E da Ernst & Young, dove lavoro, lo sanno bene. Nel
finesettimana c’è sempre qualcuno che lavora sui bilanci dei clienti, che controlla la chiusura dei
mercati asiatici o che semplicemente programma il lavoro della settimana. Inutile dire che tocca
spesso a me, che sono l’ultimo arrivato. Sembra destino che anche oggi, che ho avuto due giorni
liberi, debba passare dalla porta di quell’edificio che quando ero uno studente sognavo di varcare
e che adesso, a due anni dalla discussione della tesi, è una dura ma entusiasmante realtà. Mentre
penso alla faccia che faranno i colleghi di turno vedendomi arrivare in tenuta da jogging, continuo
a correre per le vie del centro, senza fare ormai alcun caso al fatto che sto correndo a perdifiato in
una città fantasma. Passo il badge nella porta, che si apre per magia con un leggero ronzio. Niente
segretaria, la bella Cristina, viso mediterraneo, abbronzato e contornato da lunghi capelli corvini.
Niente di preoccupante, Cristina è sempre libera nel finesettimana. I ragazzi che lavorano il Sabato
sanno esattamente come fare per raggiungere le loro scrivanie. E così faccio io. Il mio ufficio è il
primo sulla sinistra al terzo piano, ma lo by-passo. Il mio obiettivo è la grande sala riunioni, dove i
ragazzi lavorano quando l’edificio è semi-deserto. Apro la porta, e il silenzio è assordante. La mia
ansia cresce. I monitor sono in stand-by, l’unico rumore proviene dal lento gocciolare della grossa
boccia d’acqua. Me ne riempio un generoso bicchiere, sperando che mi aiuti a far diminuire le
pulsazioni. Guardo i computer, stanno trasmettendo i dati in diretta dei mercati asiatici, il Nikkei
per la precisione. Osservo la funzione d’andamento dei prezzi e mi cade il bicchiere dalla mano,
finendo con un tonfo sordo sul costoso parquet dell’azienda di consulenza americana. I dati sono
aggiornati fino alle otto in punto del mattino. Sono le otto e 33, e un ritardo del genere non è
neanche accettabile per software di cui si serve “yahoo finanza”, impossibile pensare che un pc di
Ernst & Young abbia 33 minuti di ritardo sulla comunicazione dei prezzi di borsa. E dove sono i
colleghi? Ho un’illuminazione. Afferro il telecomando e accendo il grosso schermo led della sala
riunioni. È sintonizzato su Bloomberg, il rinomato canale finanziario. Ma la diretta non c’è. Non c’è
nulla tranne uno schermo nero. Devo sedermi, e ragionare. Evito la pozzanghera artificiale da me
stesso creata e sprofondo su una delle sedie di pelle nera della stanza. Ci vuole un secondo per
comprendere cosa è successo. Milano è deserta. Mi affaccio alla finestra sicuro di trovare
l’incredibile conferma. Nessuno in strada, nessuno alla finestra. Probabilmente la terra è deserta.