Il povero Tommaso si dibatteva, arretrava, grugniva e piangeva d’un pianto assordante. Dalla mia cameretta vedevo e sentivo ogni cosa. Oltre al dolore fisico, Tommaso sentiva anche un dolore interiore. Era il dolore che si sente quando chi ti ha mostrato cure e affetto, in realtà ti stava ingannando. Mentre il signor Melchiorre continuava a tirare col suo bastone uncinato, Tommaso, mentre arretrava, girava i suoi occhi impauriti verso la finestra della mia cameretta. Forse voleva capire se anche il suo piccolo amico fosse fatto della stessa pasta degli altri. I suoi dèi, quelli che lo avevano accudito e nutrito, lo avevano ingannato di un falso amore, e ora che si erano rivelati demoni dalle brame fameliche, la sua ultima preghiera era per me che però non riuscii a far nulla per aiutarlo, e così lo abbandonai impotente nelle mani dei suoi aguzzini. Lo trascinarono, sollevandolo, sopra una mezza botte rovesciata, e mentre Tommaso non si rassegnava e continuava a gridare e a dibattersi per cercare di salvarsi, dopo che gli legarono le zampe a due a due, il signor Melchiorre estrasse un coltellaccio lungo e affilato dal fianco e lo ficcò nella gola del maiale, recidendogli la giugulare. D’un tratto il suo grido si fece roco e sfiatato, e mentre il sangue usciva a fiotti dalla sua gola, e veniva raccolto in un recipiente posizionato sotto al suo collo, il grido di Tommaso si faceva sempre più debole, finché ad un certo punto si spense completamente. Mia madre entrò in camera mia e vedendomi piangere, mi abbracciò e cercò di consolarmi, dicendomi che i maiali non sono come i cani e i gatti, sono animali destinati a essere uccisi e mangiati e non avrei dovuto affezionarmi. Le chiesi di andare via e di lasciarmi solo. Mi buttai sul letto affondando con la faccia nel cuscino, e dopo qualche minuto passato a piangere, mi addormentai. Quando aprii gli occhi, mi resi conto di aver dormito per circa un’ora e per un attimo credetti di aver sognato tutto. Uscii fuori nel giardino e vidi il maiale appeso a una balaustra, diviso a metà e senza la testa. Il signor Melchiorre aveva già sezionato le sue carni per farne salsicce, prosciutti, lardo e avevano anche sciolto il suo grasso in un grande pentolone per farne la sugna. Tommaso non c’era più. Per un attimo mi venne in mente il giorno in cui lo prendemmo alla fiera, col suo codino arricciato e il muso sollevato in aria mentre annusava la vita. C’era l’usanza di portare un po’ di carne del maiale al vicinato, e mio padre me ne diede per portarne a un nostro vicino, «Giacomino, porta questo al compare Antonio, vedrai che ti ricompenserà con una paghetta», disse mio padre porgendomi un piatto pieno di carni del maiale. Colpii il piatto con uno schiaffo, facendo volare i pezzi di carne per ogni dove. Mio padre aggrottò le sopracciglia per sgridarmi, ma mia madre gli fece segno di lasciarmi stare. Non volli mai assaggiare le salsicce essiccate di Tommaso, e per oltre un anno non volli più mangiare alcun tipo di carne. Poi, un bel giorno mio padre mi fece una domanda: «Giacomino, secondo te tra il lupo e l’agnello chi è il cattivo?» 

«Che domande, il lupo è il più cattivo», risposi con convinzione.

«Sbagliato!», soggiunse mio padre, «il lupo ha diritto di vivere esattamente come l’agnello, e se l’agnello può mantenersi in vita mangiando erba, il lupo e i suoi piccoli per sopravvivere hanno bisogno di carne. Io credo che se Dio ha creato animali che per sopravvivere devono mangiare altri animali, in questo ci deve essere qualcosa di giusto che forse non riusciamo a cogliere. Dio avrebbe potuto creare tutti gli animali erbivori, inclusi noi, non credi?», disse, «se ci avesse fatti come le pecore, la carne non ci piacerebbe, non la vorremmo, e nessuno mangerebbe nessuno», concluse con un sorriso. Lo guardai, sembrava avere un senso quello che diceva, ma non dissi nulla. Mio padre mi accarezzò sulla testa e se ne andò. La carne di Tommaso non la mangiai mai, ma col passare del tempo fui persuaso dalle parole di mio padre e ripresi a mangiare carne come tutti gli altri. Oggi, gestisco una grande fattoria, con tante galline che depongono uova, maiali, conigli e alcune mucche che producono latte, ma tutte le volte che devo uccidere un animale, ho imparato a chiedere perdono all’animale che sto per ammazzare, e a ringraziarlo per il suo sacrificio, ricordandomi che lo stesso dio che mi dà il potere su ognuno di essi, un giorno, quando deciderà di stendere la sua mano su di me, consegnerà le mie carni nel potere di altre creature, e i vermi saranno gli ultimi commensali di tutta la catena alimentare, fino a restituire di nuovo terra alla Terra. 

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