«Ti dico che è inutile».
«Peggio. È pericoloso. Non è… scientifico. Ricordati che è stato un caso».
Saltzmann non rispose. Continuò a camminare con le mani allacciate dietro la schiena, a capo chino.
Per alcuni istanti, Weber e Mosley rimasero qualche passo di lui e, in quegli istanti, parvero ciò che erano stati un tempo: il geniale, brusco, autoritario, imprevedibile professore e i suoi due più promettenti assistenti, poi Saltzmann si fermò di colpo e, subitanea com’era apparsa, l’illusione svanì.
Il vecchio piantò gli occhi in faccia a Weber: si trovavano alla stessa altezza, ora, ma, molti anni prima, Saltzmann sovrastava l’allievo di mezza testa: gli anni avevano ingobbito il professore. Gli anni e molte altre cose.
«Un caso!» sbottò Saltzmann. «È questo a farmi impazzire, Harry. Abbiamo avuto la prova di uno dei paradossi di Heisenberg per caso!».
Mosley si accese la pipa. «Solo qualche atomo, Frank, solo qualche atomo. E mezzo stato è rimasto al buio per due ore».
«Già – convenne Saltzmann – ma dov’è andato quel protone, in due ore, eh, Wilfred? Dov’è stato? L’hai controllato tu il decadimento, se non erro!».
Mosley si guardò i piedi, sbuffando una nuvoletta di fumo. «Nel passato» disse
«Appunto». Concluse Saltzmann. «Abbiamo misurato la velocità di qualche particella e, come Heisenberg aveva previsto, l’abbiamo spostata nello spazio – tempo. Anzi, l’abbiamo spostata nel tempo. Quegli atomi di plutonio sono invecchiati di due anni, due anni ragazzi, non due ore… ma non qui. Non in questo continuum spazio temporale. E poi sono tornati indietro».
«E va bene, Frank – intervenne Weber – abbiamo inventato la macchina del tempo».
Saltzmann alzò le braccia. «Inventato? – urlò – Volesse il cielo che l’avessimo inventata. Direi piuttosto che ci siamo inciampati – abbassò le braccia e la voce – un maledetto caso». Si fermò e prese a guardare, fuori dalla finestra, il deserto immerso nella notte.
«Il Presidente chiamerà presto un’altra volta – disse Mosley – che cosa dobbiamo dirgli?».
Saltzmann si abbatté su una sedia e prese a massaggiarsi le tempie.
«Non lo so, ragazzi – bisbigliò – non lo so».
«Io dico che è meglio insistere nella storia dell’esperimento fallito – suggerì Weber – in fondo, è vero».
«Albert avrebbe saputo cosa fare» mormorò Saltzmann.
I due uomini in piedi si irrigidirono impercettibilmente. Erano anni che nessuno osava nominare “Albert”.
«Il punto è – disse Mosley – che anche se la macchina funzionasse (e non ho detto che funzioni) non ci servirebbe a niente».
«Giusto – convenne Weber – non è quello che il Governo vuole e, anche se lo volesse, non ci sarebbero fondi per sviluppare il progetto. Ci sono altre… priorità».
Saltzmann, silenzioso, pareva non ascoltarli. Fissava la parete alla quale era appesa, con una puntina, una vecchia foto in bianco e nero. Lui ed Elsa, ai piedi della Statua, sorridevano verso l’obbiettivo. C’erano possibilità nel loro sguardo. Sogni timori, speranze, desideri, ma, soprattutto, possibilità.
In fondo, la vita era una miriade di possibilità che svanivano fino a ridursi all’unico, possibile esito.
Ma loro, forse, avevano trovato un trucco per invertire il processo, il modo per barare alla lotteria.
«Ho conosciuto mia moglie perché le ho rovesciato addosso il vassoio del pranzo, alla mensa. Se non fossi stato così maldestro, non l’avrei conosciuta e la mia vita sarebbe stata completamente diversa, di sicuro peggiore. D’altro canto, sono sempre stato maldestro. Ho schiacciato centinaia di piedi, perso decine di chiavi, sbattuto contro un’infinità di persone, però nessuna delle donne cui ho pestato un piede o che ho urtato passeggiando per i corridoi dell’università è diventata mia moglie, perché nessuna era come Elsa. Elsa era unica. La vita è unica. Ogni vita lo è».
Si alzò lentamente dalla sedia e, mai come in quel momento, la differenza tra Saltzmann e i due uomini in piedi di fronte a lui fu evidente. Un solco che poteva contenere un intero universo.
Il professore si avvicinò di qualche passo alla foto.
«Forse avete ragione, ragazzi. Forse esiste un universo nel quale io non ho rovesciato il vassoio della mensa addosso ad Elsa e così non l’ho conosciuta. Forse esistono infiniti universi in cui questo fatto non è accaduto. Perciò, anche se tornassi indietro nel tempo e finissi in uno di questi universi (incontrando me stesso, tra l’altro, ma questo è un paradosso che non voglio approfondire) e se rovesciassi addosso a mia moglie il vassoio della mensa … ebbene, in questo caso continuerebbero ad esistere cento, mille, infiniti universi in cui ciò non accade. E, soprattutto, ciò non potrebbe cambiare il fatto che in questo universo quell’evento è avvenuto.
Chissà, forse ci sono universi interi che hanno cominciato ad esistere – percorsi alternativi dell’essere – proprio nel momento in cui ho rovesciato il vassoio.
D’altro canto, tra gli universi nei quali io non rovescio il vassoio, ce ne potrebbe essere uno (o cento, o mille, o infiniti) in cui io conosco mia moglie perché le pesto un piede, o perché io perdo le chiavi di casa, lei le ritrova e me le porta… Dev’essere un problema di variabili nelle equazioni quantiche».
Un militare comparve sulla porta alle loro spalle.
Il presidente aveva chiamato.
Saltzmann, lo sguardo ancora fisso alla parete, si voltò appena verso i due fisici dietro di lui. «Sì, sì, insistiamo ancora con la faccenda dell’errore … e speriamo che non ci addebiti i danni per l’interruzione di corrente».
Weber e Mosley uscirono dalla stanza.
Saltzmann, rimasto solo, si voltò di nuovo verso la foto.
I suoi due allievi avevano ragione.
D’altronde loro non potevano capire… non fino in fondo, almeno.
Per loro, per esempio, esisteva ed era sempre esistita solo una Statua.
La versione precedente era stata cancellata da tutti i quadri, da tutti gli archivi, da tutti i ritratti, da tutte le foto. Neanche quella di Saltzmann faceva eccezione. Anche il nome aveva subito lo stesso destino.
Gli occhi del vecchio s’inumidirono.
Morto lui, e quelli come lui, della vecchia Statua della Libertà non sarebbe rimasto nulla, nemmeno il ricordo.
Guardò, dietro le spalle di Elsa, l’unica versione che tutti avrebbero conosciuto: la Statua della Razza, col braccio proteso nel saluto nazista.
«Possibilità» disse.