Il paese di C*** è un po’ di vecchie case, intorno a un piccolo castello, in cima a una collina ricoperta di verde. In quel borgo viveva una bella ragazza di umili origini che, in virtù della sua indiscussa bellezza, aveva sposato un uomo facoltoso e intelligente.

   L’uomo, dotato di buoni mezzi, amava quella donna con tutto il cuore, ma la natura era stata con lui più che matrigna, proprio crudele. Era un marito leale e devoto ma privo di un particolare che, a detta dei più, è fondamentale in un buon matrimonio: era incapace di congiungersi con una donna. Lui la desiderava, sì, la voleva con grande intensità ma, ahimè, passava da una cilecca all’altra e, alla fine, se ne fece una ragione.

   Non così la donna, però, che, ardendo dalla voglia di maternità, adottò i più bizzarri metodi per destare un arnese che, bisogna proprio ammetterlo, non dette mai segni di vitalità. Aveva persino sacrificato l’animale più bello del suo pollaio: un gallo fiero e pettoruto che, con bel passo nobile, ciondolava spavaldo fra le galline. Era veramente affezionata al suo gallo, simbolo, per lei, della gioia di vivere. E del suo vigore poi, che dire? Superbo e tracotante. I suoi occhi rossi brillavano, insolenti e vigilanti, tra i riflessi metallici delle piume bruno verdastro che, ribelli, sporgevano sotto il collo imbolsito.

   Tre volte scuoteva le ali, prima di lanciare il suo grido improvviso di vita, che annunziava l’arrivo del giorno, della notte, della pioggia. Tutto il ciclo del mondo girava intorno all’alterigia di quel canto fulmineo e sprezzante. 

   La donna andava fiera di quella bestia.

   Un demonietto maligno, però, vestì le sembianze rassicuranti di una sua amica d’infanzia, che era stata l’unica a essere intima dei suoi tormenti.  La compagna gli aveva favoleggiato che gli stimoli forti – è arcinoto a tutti - sono stati inculcati all’uomo proprio dall’emulazione del gallo, pronto finanche a morire per la vittoria, con le sue lunghe e falciformi penne, la cresta e i bargigli simili a lingue di fuoco, i tarsi provvisti di un forte sperone, che punge, taglia e trionfa. 

   Insomma, la leggenda (deposito indiscusso della saggezza antica) narra che il testicolo destro del gallo, avvolto in pelle di montone, stimola negli uomini la passione. Pensa, lo diceva perfino Plinio!

   Nell’animo della donna si affollarono pensieri strani, spesso folli, inconfessabili, anche a se stessa. Tentò, più volte, di respingere quelle intenzioni spregevoli ma, alla fine, si lasciò vincere da esse: in un giorno in cui sembrava pazza, agguantò quel gallo e lo castrò, con cruda determinazione. Seguendo fedelmente la leggenda, avvolse il testicolo destro del gallo in una pelle di montone, lo nascose sotto il letto coniugale e attese, illusa che si compisse il miracolo.

   Nulla. Non accadde proprio nulla, e mentre lei pativa il crudele destino, il suo mitico gallo, sotto gli occhi sbeffeggianti delle galline del pollaio, finì rapidamente i suoi giorni. Non cantò più alle prime ore del giorno e della notte e, misteriosamente, ogni stella del cielo parve immobile, attonita, quando la sua fine giunse.

   La donna si chiuse in un mutismo insano, scostante. Passava gran parte del giorno alla finestra della sua camera, a guardare la torre del castello, proprio di fronte a lei, su cui una figura di gallo araldico, ritto su una gamba sola, indicava la direzione del vento.

   Solo, proprio come lei, quel gallo banderuola stava di fronte al sole e la sua anima di ferro, ritta sull’asta, assomigliava tanto alla sua.

   Dopo la perdita del suo gallo, la donna si affezionò tanto a quella sagoma nera che, da lontano, sembrava vigilare sulla finestra della sua stanza, come se stesse in attesa che qualcosa accadesse e, in effetti, dopo molti mesi, si compì un prodigio.

   Tutto avvenne in una fredda e piovosa notte di dicembre. La donna tornava, tutta sola, dal rosario che il parroco – quel sant’uomo – aveva recitato con le più fervide beghine del paese. Nuvoloni bassi e gonfi scagliavano fulmini che rischiaravano le strette viuzze del paese. La donna, avvolta nel suo caldo mantello di lana, correva rasente le mura del castello, verso casa. Un fulmine colpì la banderuola della torre che, in un clangore assordante, precipitò sul selciato della strada. La poverina si bloccò in preda allo spavento e rimase fissa ad ammirare la sagoma nera del gallo, distesa ai suoi piedi. Bagliori di fiamma illuminavano ciò che lei aveva sempre visto da lontano e che ora, miracolosamente, era disteso lì, per terra.

   In poco tempo avvenne il prodigio. Il gallo, pian piano, si animò, si sollevò sulle gambe e la osservò con occhi gentili. Allungò il collo, per tre volte sbatté le ali e lanciò il suo grido di gioia verso i bagliori che saettavano violenti nell’oscurità. Poi, avvolse la donna nelle sue calde ali, la strinse a se e la possedette.

   La donna non seppe mai se quello che avvenne fu realtà o, piuttosto, uno dei sogni inquieti che riempivano le sue notti. Quando si scoprì incinta, nessuno volle credere al suo racconto, nemmeno suo marito che, consapevole della sorte amara della sua donna e devoto alla narrazione evangelica, volle chiamare quel bambino Gesuino e lo sentì come suo. 

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