Osservandoli ripensò alla sua, di infanzia, quando ingenuo e spensierato trotterellava per il quartiere in pantaloncini corti, un quartiere – quello di famiglia – perlopiù frequentato da anziane signore cariche di sporte della spesa. In quel momento di fronte a lui c’erano solo dei ragazzini, ma stavano alzando un gran polverone dal suolo con quei piedi scalzi, magri e veloci, che cercavano senza posa di rincorrere un vecchio pallone, trovato chissà dove. Andrea stringeva la sua macchina fotografica tra le mani, ma non riusciva ad immortalare quell’istante. Era partito dall’Italia per conto del suo capo, responsabile di un’importante rivista di viaggi . Il suo incarico consisteva per l’appunto nel catturare scene di vita quotidiana in quell’angolo africano. Dovevano vendere copie, molte copie e avevano bisogno quindi di notorietà, originalità, genialità per potersi affermare nel mercato cartaceo internazionale e poter così tener testa ad altri rotocalchi simili. Andrea questo del resto lo sapeva bene e sapeva anche molto bene che se non fosse tornato in redazione con foto a dir poco straordinarie, sarebbe stato licenziato in tronco. E non poteva permetterselo, questo no. Non era dunque partito per mettersi in luce di fronte a colleghi, amici, parenti, ciò che in modo imbarazzante lo aveva convinto ad accettare l’incarico era in realtà il brontolio del suo stomaco. Doveva ancora due mesi di affitto alla padrona di casa e non poteva certo continuare ad elemosinare pranzi e cene a casa dei suoi. A trent’anni era davvero umiliante. Così aveva accettato di imbarcarsi sul primo volo per il Sudan con un unico di scopo: quello di riscattarsi. La sua apparecchiatura certo non poteva competere con quella supercostosa di fotografi celebri, ma in cuor suo, pensava o forse è meglio dire sperava che fosse la sua creatività a prevalere sui miseri mezzi che la redazione gli aveva assegnato. Eppure nel bel mezzo di quell’atmosfera giocosa e al contempo scioccante, poiché immersa nella povertà più assoluta, anziché adempiere da coscienzioso fotografo al suo compito, si era immobilizzato proprio lì, davanti a quei ragazzini, immerso nei ricordi nostalgici della sua vita e interessato più alle sorti della partita che allo scatto perfetto di cui aveva estremamente bisogno per riempirsi lo stomaco. Era una soffocante giornata estiva, il tramonto era quasi vicino, non soffiava un alito di vento e la vegetazione, come del resto un po’ ovunque lì attorno, era pressoché assente, solo un’enorme distesa di terra polverosa e rovente. Non si trattava certo del verde e ombroso parco nel quale Andrea era cresciuto, col suo orsetto di pezza sempre sotto braccio. Il giovane fotografo sospirò, ripensando al bimbo che era stato. Quand’era piccolo non aveva mai posseduto veri calzoncini da calcio come i suoi compagni di scuola. Aveva tanto supplicato la madre, ma nulla, si era dovuto accontentare di quelli che portava tutti i giorni e motivo per cui si era sempre sentito un po’ diverso. Quei ragazzini invece non sembravano affatto preoccupati per il taglio dei loro pantaloncini. A dir la verità, non sembravano proprio interessati all’utilizzo di un paio di calzoni. Alcuni giocavano mezzi nudi, altri con qualche indumento strappato e sporco, portato alla bene e meglio e di qualche taglia più grande o più stretta. La frenesia del gioco era alle stelle, la voglia di vincere alta. Anche Andrea in quel momento avvertì il bisogno, il desiderio di inserirsi nella partita, cose se fosse tornato per davvero un ragazzino. Quel ragazzino coi calzoncini corti che era sempre stato lasciato in disparte, poiché troppo piccolo, magrolino o ritenuto strano. A un tratto però il pallone volò per sbaglio verso di lui , a pochi metri di stanza dalle sue gambe ormai adulte, inguainate in un paio di blue jeans occidentali sui quali spiccava una camicia bianca , arrotolata sulle maniche.” Click”: Andrea scattò la sua prima foto a quel pallone sporco e un po’ sgonfio, su un terriccio asciutto e polveroso, pieno di piccole e grandi impronte umane. “ Click”: una seconda foto al bimbo che era ora venuto a riprendersi la palla. Era un bimbo con due grandi occhi scuri, un sorriso sincero con ancora alcuni denti da latte e due manine agili nel far rimbalzare il pallone al suolo. Poteva avere al massimo sette anni, pensò Andrea e rimase stupito quando questi con fare noncurante, scalzo e senza pantaloni, lo prese per mano e lo condusse con sé, quasi trascinandolo, in mezzo a quello strampalato campo da calcio. “ Click, click,click”: Andrea cominciò a scattare una foto dopo l’altra. Fotografò i compagni di gioco del bimbo, tutti sorridenti, pronti a strattonarsi l’un con l’altro pur di mettersi davanti all’obbiettivo. Immortalò le mamme di questi bimbi sulle soglie delle capanne ai lati del campo, alcune con qualche neonato legato al collo, intente a pestare del riso su un panno al suolo. Infine catturò da lontano anche il lavoro di alcuni uomini, probabilmente padri di famiglia, impegnati nel sventrare qualche preda di una fortunata caccia. Guardò ancora il bimbo che lo aveva accolto in quella partita, gli mise al collo la sua macchina fotografica e calciando il pallone diede avvio alla ripresa del gioco. Si divertì come forse mai aveva fatto quand’era piccolo e neppure da adulto, diviso solo tra un lavoro stressante e pochi impegni mondani, superficiali. Sentiva dentro di sé una gioia autentica che mai aveva provato prima di allora. Non c’erano colleghi invidiosi in quel luogo, né capi irascibili e pretenziosi, né genitori che si aspettavano da lui una carriera gloriosa ed una fidanzata modello. C’era solo quel bambino a cui non aveva mai potuto dare la libertà di essere e che ora rivelandosi, dentro di lui,in tutta la sua vitale gaiezza, lo stava aiutando a crescere nei panni dell’adulto che in fondo già da tempo era divenuto. Dopo qualche passaggio a pallone, riprese dalle mani del bimbo curioso e vivace la sua macchina fotografica, ora strumento più che mai prezioso poiché indispensabile per immortalare quell’onda di pura felicità. “ Grazie”, disse nella sua lingua, pur sapendo che il bimbo non avrebbe capito e dopo avergli fatto una carezza sulla testa si allontanò. Il bimbo lo osservò a lungo con un largo sorriso. Era bastato quel gesto ad illuminargli la giornata e lo stesso era valso per Andrea: quella mano – tesa con spontaneità ed innocenza – lo aveva aiutato a diventare sé stesso. Il sole era ormai calato del tutto, le prime stelle cominciavano a spuntare qua e là nel cielo africano, stelle molto lucenti seppur distanti come solo in Africa – senza inquinamento- sanno essere. Il suo aereo sarebbe ripartito l’indomani.

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