La stanza era così piccola che bastavano due passi per attraversarla. E lui soffriva di claustrofobia. Certo, non era una prigione, ma fuori non si poteva andare, perché era freddo e pioveva di continuo. Finché continuò a guardare le pareti cercando di allargarle, la sensazione di soffocamento crebbe. Poi un sogno, o un frammento di sogno, gli suggerì la chiave.

Iniziò a vedere tutto da molto vicino. Si stese sul pavimento e si mise a esplorarlo palmo a palmo. Improvvisamente scoprì che il suo orizzonte era diventato larghissimo. Poteva immaginare facilmente che nella distanza tra tre mattonelle sorgesse la città di Las Vegas; con I suoi grandi viali, i grattacieli, le prostitute. Oppure prendeva la coperta e la faceva scendere fino a terra, ne modellava le grinze finché riusciva a farla assomigliare a un largo canalone di montagna. Ed era davvero lì, tanto da sentire il freddo pungente dell’alta quota e a desiderare di tornare in fretta a valle.

Il lavandino divenne dapprima un lago sul quale mise a navigare un pezzetto di legno staccato dal battiscopa. Era una piccola barca da pesca e lui riconobbe subito i due a bordo; padre e figlio intenti a tirar su la rete. E quando il lago gli venne a noia lo trasformò in un oceano in tempesta facendo mulinare l’acqua con un dito, mentre Achab arpionava la balena e ne veniva trascinato sul fondo. Poi, con un gesto compassionevole, tolse il tappo dello scarico. Il capitano pazzo e Moby Dick sparirono all’istante nel gorgo.

Una notte, sognò di stringere ancora tra le braccia l’unica donna che avesse veramente amato. Al risveglio, ritrovandosi solo, si sentì molto triste. Allora prese il cuscino e lo modellò come la dolce schiena di Eleonora. Poi lo abbracciò e posò le labbra sul punto dove avrebbe dovuto trovarsi il collo della ragazza. Ricordava ogni centimetro di quella pelle benedetta ma, soprattutto, il suo odore leggermente speziato, che lo faceva accendere come un afrodisiaco. Ma la bellezza di quella schiena era per lui ancor più eccitante. Non i seni, seppur perfetti. Non il sesso o le gambe. Gli piaceva scorrere con le dita il leggero incavo al centro, fino alle fossette di Venere e poi poggiarle le mani appena sotto le spalle, per ascoltare il suo respiro.

Mentre faceva colazione pensò che poteva ricreare quel corpo magico. Trovò un foglio e una penna biro e iniziò a disegnarlo. Scoprì suo malgrado che cercare di fissare il ricordo sulla carta non funzionava. Solo nella sua mente, Eleonora riviveva. Nei tratti sul foglio moriva, fissandosi in modo intollerabile laddove la sua vera natura era stata imprevedibilmente mutevole.

Distolse lo sguardo e fissò una scrostatura sul muro. Non ci aveva mai fatto caso, ma al centro della macchia si intuiva un volto umano. Da quello momento ebbe finalmente un compagno di sventura col quale discutere, o un ascoltatore paziente che non lo interrompeva mai. Con il tempo, il volto che vedeva nella macchia divenne sempre più definito e infine lo riconobbe come il suo servizievole compagno di banco, che lo aveva aiutato mille volte a portare a casa un voto decente.

Piovve per molti mesi, giorno e notte. Quando si stancava di inventare mondi, faceva lunghe chiacchierate con il suo amico immaginario. Eran, quelle, piccole follie che gli evitarono di impazzire davvero. Poi uscì il sole e la stanza fu inondata di una grata luce bianca.

Avrebbe voluto correre fuori, ma il mondo gli sembrò troppo vasto. Crudelmente immenso. Restò sulla soglia, indeciso se lanciarsi fuori o restare chiuso nelle certezze delle sue fantasticherie. Fu allora che l’odore dell’aria gli entrò dentro il cuore. Fece alcuni passi, fino al centro del giardino, e si mise a ballare, come un derviscio ebbro di misticismo.

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