La luna splendeva solitaria nel cielo della notte. Mi sembrava fosse la sola a sapere della mia esistenza. Correvo silenziosa, scappando non so più da chi. La piccola cartella che portavo con me non mi permetteva di andare più veloce, però dovevo provarci. Loro erano lì, riuscivo quasi a sentire i loro passi dietro i miei. Il buio della notte mi avrebbe aiutata, avvolgendomi nelle sue oscure braccia. Proteggendomi.

Non riuscivo più a ricordare come fosse abbracciare qualcuno, non mi veniva neanche più tanto spontaneo. Avevo perso fiducia negli uomini già da un po’ di tempo. Da quando i miei genitori… No, non potevo scoppiare in lacrime proprio in quel momento. I miei genitori avevano sacrificato le loro stesse vite per farmi fuggire da quel luogo maledetto.

Ero esausta e stremata. Da circa due anni ero esule in un mondo che mi voleva morta. O forse, ormai, ero io a desiderarlo. Avevo perso tutto: la mia famiglia, la mia casa, i miei amici, il mio futuro. Mi restava soltanto la luna, lei non mi avrebbe mai tradita. Non mi avrebbe mai voluta morta.

Per la gente che vive in Nord Corea la vita non è tanto facile, soprattutto per una donna. Non è nemmeno lontanamente immaginabile cosa possa significare vivere in un luogo in cui le persone sono al pari delle bestie. Un luogo in cui la parola libertà non esiste. Un luogo in cui nessuno ha mai conosciuto l’amore, se non quello per il Leader. Mio padre lo ha sempre disprezzato, ma in silenzio. Sì, in silenzio, perché era l’unico modo in cui potevamo gridare al cielo quanto il nostro cuore fosse colmo di paura.

La vita, in Nord Corea, non è vita. La notte in cui fuggii insieme ai miei genitori vidi per strada un sacco di gente. Era morta, accasciata ai bordi dei marciapiedi che erano diventati delle vere e proprio fosse comuni. Anziani, donne e molti, moltissimi bambini. Uno sopra l’altro, come pile di piccoli libri. Morti assiderati, morti di consunzione, morti perché così doveva essere. Perché nessuno li aiutava? Perché permettevano che succedesse questo?

Ricordo che i miei genitori mi coprirono il viso affinché io non vedessi altro. Quindi non vidi altro. Però riuscii a sentire tutto. Riuscivo ad avvertirlo tutt’ora, come un peso nel cuore che rimbombava nella testa. Non è più tanto facile addormentarsi una volta che la morte ti ha preso per mano cercando di portarti via. Così restavo sveglia osservando qualsiasi cosa mi trovassi sulla testa: un tetto fatiscente, delle rocce, il cielo.

Come dei ladri, vagavamo per le strade del mondo. Il mondo, quel meraviglioso luogo che avevo sempre sognato di visitare. Adesso ne avrei fatto volentieri a meno. Ogni passo era un colpo al cuore. Vivevo nella paura, scappando il più lontano possibile da quella che fino a due anni prima era stata la mia vita. Quella vita che mi aveva portato via la cosa più cara che avevo. E adesso ero sola. E vuota. Perché continuare a scappare? Ne ero consapevole, eppure continuavo a farlo. E sapevo anche per chi continuavo a farlo.

Correvo, un macigno al posto della testa. Quei maledetti pensieri mi soffocavano, soprattutto di notte. Mi ritrovai in una radura, il deserto del Gobi non doveva essere poi così lontano. Una tempesta si avvicinava. Una delle tante. Anche la notte in cui mio padre incontrò la morte pioveva. I soldati lo avevano catturato al confine. Si era lasciato ammazzare per darci il tempo di attraversarlo, prendendo tempo con le guardie. Lui, come molti altri. Il resto di noi, soprattutto donne, era riuscito a scappare, ma oltre il confine era stato catturato. Nel migliore dei casi una donna veniva venduta come schiava o come sposa, non c’era molta differenza.

 

Nel peggiore, diventava carne da macello nelle case del piacere. Io fui sfortunata. E quando chiudevo gli occhi riuscivo ancora a percepirle, quelle terribili mani che deturpavano il mio corpo. Mia madre invece fu venduta come schiava e non la rividi mai più. Ricordavo ancora le lacrime che scendevano copiose sul suo viso. Avvertivo ancora le sue mani strette alle mie. Non volevano lasciarmi andare.

Il giorno in cui persi anche mia madre, poco oltre il confine, fu il giorno in cui il mio cuore smise di battere per sempre. Continuai il mio viaggio della salvezza verso la terra della libertà e dell’amore, anche se ogni giorno che passava ci credevo sempre meno.

Vissi per un po’ di tempo in una casa del piacere in una città della Cina del nord. Dicevano che se riuscivi ad oltrepassare il confine nord coreano eri salvo. Sbagliato. Eravamo circa sei ragazze, spaventate e infreddolite. Ci hanno preso e caricato su di un camion senza darci da bere né da mangiare. Ci hanno tenute là sopra per delle ore che mi sembrarono interminabili. Quando arrivammo a destinazione, ci fecero scendere e ci condussero in quella casa.

Ho vissuto là per circa un anno e mezzo. Un anno e mezzo di dolore, di sangue e lacrime. Io e altre quattro ragazze riuscimmo a scappare grazie all’aiuto di un cliente, ma la polizia era già sulle nostre tracce e rischiavamo il rimpatrio. E questo era ancora peggio dei maltrattamenti quotidiani cui eravamo ormai abituate. Trovammo riparo in quella radura e restammo in silenzio. Passi pesanti, sempre più vicini a noi, riempivano l’aria. Se avessi avuto un cuore, sarebbe scoppiato proprio in quel preciso istante. Chiusi gli occhi.

Riuscivo quasi a sentirlo, il profumo della libertà. Ero sola, eppure il mondo esplodeva attorno a me. Il calore, quello umano, che mi aveva spaventato per tanto tempo, adesso riuscivo a sentirlo dentro, nella fredda voragine nel mio petto. E la pioggia, preludio di morte, adesso era il più caldo degli abbracci. E la luna, in quella notte senza stelle, restò là a farmi compagnia. Solo lei, nel mondo intero, a proteggermi. Solo lei, ad aver visto il mio dolore. Solo lei, sola come me.

Chiusi gli occhi e lo trovai là ad aspettarmi: l’amore che mai avevo conosciuto e che adesso mi riempiva il cuore.

Gli occhi chiusi, eternamente avvolta con amore dalla libertà.

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