Oggi, stranamente Piazza Cavour è quasi deserta, solo un ragazzina con un Fox Terrier al guinzaglio e un anziano signore che cammina lentamente tenendo per mano il suo nipotino. Non avendo la minima voglia di rimanere a casa a incollarmi davanti alla TV, trovo che una passeggiata non può essere che salutare. Almeno con questa scusa mi ossigeno il cervello, che male non fa.
Mi pento però di essere uscito con il mio giubbotto in pelle preferito poiché, essendo una bella giornata di sole, c’è davvero caldo.
Quasi quasi me lo tolgo. Ah già, dimenticavo che non posso.
Mi siedo su una panchina e con lo smartphone mando un SMS a Carlo, un collega di lavoro, per organizzare in serata un’uscita in qualche pub. Non faccio in tempo a scrivere il messaggio che davanti a me si materializza un uomo dallo sguardo vitreo e inespressivo. È vestito trasandato, con una barbaccia incolta, i capelli lunghi e barcolla vistosamente. Si avvicina a pochi centimetri da me e mi guarda con quei suoi occhi particolarmente arrossati. Sicuramente si tratta di un tossicodipendente e con molta probabilità vorrà qualche soldo.
Rimetto il cellulare in tasca.
«Scusa, scusa, avresti qualcosa per me? Sto impazzendo!», esordisce il drogato.
«Cosa dovrei darti?», chiedo inarcando il sopracciglio.
«Ho bisogno di farina bianca. Mi hanno detto di rivolgermi a te. Ti prego di aiutarmi!», mi supplica congiungendo le mani come per pregarmi.
Mi ha preso per uno spacciatore. Adesso lo sistemo io. Mi alzo dalla panchina, abbasso velocemente la cerniera del giubbotto e gli faccio intravedere la fondina con la pistola che tengo a tracolla.
«Ho solo una Beretta calibro 9 con 15 stupefacenti confetti!», affermo con un tono da duro e con il chiaro scopo di spaventarlo al fine di levarmelo così dalle palle.
Il tossicodipendente mi squadra stranito.
«Ti avverto che come effetto collaterale basta un solo confetto caldo per farti venire il mal di pancia, ma almeno vedrai il paradiso!», incalzo maggiormente indicando con l’indice la parte bassa della sua magra corporatura.
«Ah, quindi sei un collega?», mi domanda lo sconosciuto sorridendo.
Diamine! Capisco al volo chi è in realtà quel tizio malmesso davanti a me.
«Ma allora tu… », ma non mi lascia di finire la frase.
«Già, sono un Falco. Mi occupo di microcriminalità e sono specializzato a dare la caccia agli spacciatori della zona», mi spiega qualificandosi.
«A quanto pare non riesci a riconoscere uno sbirro da uno spacciatore», gli dico secco.
«Mi ha ingannato il tuo giubbotto in pelle, mi ero insospettito», si giustifica.
«Il mio giubbotto in pelle?», esclamo.
«Eh sì! Un po’ troppo per una giornata calda come questa, pensavo che tenessi l’ipotetica mercanzia lì dentro», chiarisce con fare desolato.
«Mi spiace per te, ma sono solo un semplice poliziotto che voleva rilassarsi su una cazzo di panchina», insisto manifestando il mio disappunto.
«Adesso lo so e ti chiedo scusa. Ti auguro una buona giornata», conclude dandomi le spalle. Lo osservo mentre si allontana, ricominciando nuovamente a barcollare. Bah!
La prossima volta esco con abiti leggeri e il “ferro” lo lascio a casa. Poco ma sicuro.