Alcune mattine Marco Restelli si soffermava più del solito davanti allo specchio del bagno. Si osservava con attenzione il viso su cui restavano sempre più evidenti i segni delle tensioni cui era sottoposto per il suo lavoro. Le labbra sottili assumevano naturalmente una piega amara. La fronte era solcata da una ruga che raramente si distendeva. Gli occhi azzurri erano sempre allerta. Il naso dritto era affilato come tutto il viso.
Il colore dei capelli biondi, lo aveva preso dalla madre che era nata a Berlino. Erano lisci e li teneva corti sulla fronte. Aveva quarantatré anni, un corpo proporzionato e snello, tenuto in forma da frequenti visite in palestra. Il suo dorso nudo riflesso nello specchio gli rimandava due cicatrici. Una sulla spalla destra era il ricordo di un colpo di rivoltella che non era riuscito a scansare completamente. L'altra, a sinistra appena sopra la cintola, era una ferita da coltello che gli aveva insegnato a non distrarsi mai durante un'azione, anche quando la pensava conclusa.
Lui si metteva sempre in gioco personalmente! Era la caratteristica principale del suo carattere fin da piccolo. Lo aveva appreso da suo padre, Enzo Restelli, fondatore della piccola casa editrice "Le Colonne Edizioni" e nome abbastanza noto negli anni settanta tra la sinistra radicale milanese.
"La lotta a ciò che ritieni sbagliato è un dovere morale. Non ci si può sottrarre! Altrimenti cosa lasciamo ai figli? Un mondo dove gli stronzi vincono facile? E no!" gli aveva detto un giorno quando lui aveva intorno ai dieci anni.
La frase l'aveva segnato ed era stata il propellente della sua azione futura. La sua personale lotta contro il male che determinato continuava a condurre. Certo non era un modo rilassato di affrontare la vita.
Nel corso degli anni aveva litigato infinite volte con: quelli che non rispettavano il proprio turno in coda; quelli che parcheggiavano in seconda fila impedendoti di uscire dall’unico posto che avevi trovato dopo lunghi giri intorno al quartiere; quelli che sul tram si piazzano subito davanti alla porta d’uscita e scendono dopo dieci fermate; quelli che ”aiutiamoli a casa loro, e comunque prima gli italiani, prima i milanesi, prima me”; quelli che …; beh forse aveva litigato con tutta Milano.
Il suo carattere irruento non lo aiutava certo nel condurre le indagini che affrontava.
Per fortuna aveva incontrato Luca Paladino.
Luca aveva qualche anno meno di lui ed era l’autore de “Il mimo”, un thriller di successo pubblicato dalla casa editrice di suo padre. Castano di capelli, occhiali, fisico mingherlino. L’unico sport che Luca praticava era il gioco degli scacchi. Aveva però una mente dinamica, sempre attenta a cogliere i particolari e a elaborarli. La sua creatività lo portava a immaginare i vari scenari e a suggerire le soluzioni.
Quando Marco gli parlava del caso di cui si occupava, Luca lo tempestava di domande sui luoghi, i personaggi e i tempi del delitto. Aveva imparato a non irritarsi, ma anzi a tenerne in gran conto. Verificava le domande di Luca negli interrogatori e nei sopraluoghi che svolgeva.
Riusciva sempre a farsi un’idea di come si erano svolti i fatti e a smascherare i colpevoli.
Certo trovare le prove e farli condannare era tutta un’altra cosa!
Marco davanti allo specchio si era concesso uno dei suoi rari sorrisi.
Luca ora era di là, nella stanza da letto e dormiva ancora.
Da quasi dieci anni, lui e Luca, condividevano felicemente l’appartamento e la vita.