Il prete alla fine si girò di spalle con la fretta propria degli officianti abitudinari. Il chierichetto gli sfilò la stola, piegandola diligentemente.
Una decina di persone baciò il vedovo con trasporto, che pareva volessero portarlo con loro. Ma presto non ci furono più.
Rimase con il figlio.
Le due teste biondo smorto, appaiate lungo il viale, cominciarono ad avviarsi sotto i cipressi che gocciolavano nebbia.

“Ora papà dobbiamo rivedere un po’ la nostra situazione. Mamma non c’è più e quello che avevamo pensato un tempo lo dobbiamo un po’ riconsiderare…”
All’uomo non piacque il tono cattedratico che il ragazzo aveva assunto.

“Non è detto che la morte di tua madre o la mia debbano mettere in discussione quello che avevamo pensato della nostra vita… la fine fa parte del tutto. O no…?”
Il ragazzo rise amaramente. Prese sottobraccio il padre.

“Sarà perché avevamo sempre pensato che saresti stato tu il primo a lasciarci?”
L’uomo si fermò. Guardava il figlio da una certa lontananza. Non ci aveva mai pensato.

“Sai, mamma era in tutto più autonoma. Sapeva fare in casa. Reggeva tutto lei. Tu che sai fare? Sai cucinare? Sai fare il bucato?”
L’uomo era stizzito, pur riconoscendo le ragioni del figlio. L’idea della cucina e del bucato infatti gli aveva fatto salire una certa angoscia.

“Queste sono cose che si imparano e, ringraziando Dio, ho sostanze tali da potermi permettere qualcuno in casa che le faccia per me. Non certo come tua madre, per carità. Ma lo stretto indispensabile. Tu lo sai, io non sono chissà quanto esigente.”
“Sì. Per le cose di tutti i giorni lo posso capire. Ma tu non sei mai stato attento con le scadenze, le bollette, le tasse. Serve che io magari ti controlli su questo…”
L’uomo, che aveva ripreso a camminare, seppur gravato da un velo in più di malinconia, si fermò di nuovo, a un cipresso dalla tomba di un uomo importante del Paese. Un certo “Gavazzeni Giangilberto”. Che fosse stato importante lo dedusse dal Giangilberto e dal fatto che stesse in una foto enorme, nella quale posava accanto ad un macchinone di rappresentanza.

“Tu mi stai facendo una forzatura! Io ho un’agenda dove mi segno tutte le scadenze e non ne perdo una! Fino ad ora chi pensi che sia andato alle poste o alla Banca per pagare le tasse e per discutere di robe che tu non ti sei mai sognato di guardare? Non diciamo fesserie… non sentirti forzato a fare cose che non ti va di fare. Fatti la tua vita e lascia che la mia prosegua tranquilla. Fammi il santo del piacere!”

Il figlio si sentì allontanato da una bolla di gomma frapposta tra lui e il genitore. Però provò anche una sorta di sollievo che non seppe mascherare. Cercò di dissimulare questa venatura di leggerezza con un riso sarcastico. Il suo volto liscio e senza naso, i suoi occhi chiari e la bocca sottile si rilassarono finalmente dalla smorfia dolorosa che aveva tenuto da quando si era destato.

“Tu vuoi che io vada in città!”

“Io voglio che tu faccia quello che vuoi fare e che non mi dica quello che ho da fare io! Io devo come… cancellare questo giorno dalla mia vita! Fare finta che non sia mai esistito e ricominciare da capo!”

Così, quando cominciò a stillare una leggerissima pioggia da camposanto, i due si allontanarono su strade opposte, le teste biondo smorto ondulanti per il passo diventato di colpo veloce.

 

Il lungo viale era tagliato di netto da un altro lungo viale di cipressi che portava all’entrata del camposanto. Toccò le spesse sbarre gelate della cancellata. Allora, quasi del tutto libero, cominciò a percorrere lentamente la strada verso il centro.

Pensò incessantemente alla morte di sua moglie, cercando in questo pensiero del dolore; ma non ne trovò. Allora si concentrò sui momenti più belli trascorsi con lei, ma non ne rammentava.
Una sola immagine emerse all’improvviso:

“Tu hai tanto talento! Questo talento va tutto sprecato! Sei bravo a scrivere! Perché non scrivi? Perché non partecipi ai concorsi? Perché non ti impegni nella tua passione?”
Stava impettita davanti al frigorifero, con la faccia arrabbiata. Era quella faccia che gli faceva comprendere che lo amava. E allora, insieme a quello gli venne in mente anche il suo sguardo franco, i piccoli oggetti dappertutto, in bagno e sui pensili della cucina. Le piccole donnette di Murano e gli scoiattoli di coccio. E gli giunse tra i ricordi anche l’odore di dopo che s’era lavata; le sue creme, le sue mille lozioni e la tisana serale.

Si fermò al centro della piazza e tutta la pioggia gli cadde sulla testa. Tutta la pioggia destinata chissà dove si concentrò con estrema violenza sulla sua testa biondastra.

“Tu hai tanto talento! Questo talento va tutto sprecato!” Esattamente otto gocce che gli batterono fragorosamente sulla testa indifesa.

“Perché non ti impegni nella tua passione?” Esattamente sette gocce che gli rintoccarono sulla testa bionda.

Da queste cose capiva che lo amava. Non lo amava cucendogli i calzini. Non lo amava preparandogli il minestrone. Lo amava trattandolo esattamente così come meritava di essere trattato; da uomo minuscolo e senza ambizioni e che pure lei, state a sentire, amava!
E allora stringendo i pugni, pianse. Pianse perché capì che il suo amore non era al pari di quello che lei gli riservava. Ma può esistere un amore esattamente corrisposto? Può esistere la stessa quantità d’amore in entrambe i cuori?
E stringendo i pugni si disse che aveva sbagliato.
Intanto, smetteva di piovere.

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