Tratturi

 

Ho sempre ascoltato volentieri gli anziani.
Una volta, forse perché vecchio o perché si sentiva solo su quella panchina, uno di loro mi raccontò una storia.
“Tu sai cosa sono i tratturi e la loro gente?”

La mia faccia dubbiosa valse più di mille risposte e, avido di sapere, sedetti anch'io per ascoltarlo con attenzione.
"Da giovane ero forte, ma mi mancava una vera e propria istruzione. Però sapevo leggere. 

Vivevamo ad Ateleta e lavoravamo in campagna, un lavoro pesante come la vita che avevamo. Per sopravvivere ci spaccavamo la schiena su una terra dura che però ci forniva i prodotti. Per poterci garantire un minimo di benessere, mio padre volle prendere delle pecore. All’inizio erano pochissime, ma aumentarono col passare del tempo.
Da ragazzino le governavo anche se, nel periodo autunnale, mio padre e i miei fratelli partivano per la transumanza. Era un lavoro altrettanto faticoso, anzi forse peggio come dell’agricoltura, ma molto diverso.
I percorsi di allora, utilizzati ancora oggi, sono chiamati “tratturi” e conducono i pastori e il bestiame verso le zone con maggiore foraggio. Quello che facevamo era lungo un centinaio di chilometri, da Ateleta e Biferno. Si lasciavano gli Appennini prima dell’inverno, ci si spostava verso la pianura e si tornava a casa in primavera. 
Un giorno il mio babbo ormai anziano, mi sistemò la giacca, mi diede una carezza sulla testa e guardandomi fisso negli occhi, mi augurò che tutto andasse per il meglio. Era la prima volta che si rivolgeva a me in quel modo così gentile.
Capii che era arrivato il mio momento. 

Subito ne fui contento, ma quando vidi allontanarsi la casa e i suoi dintorni, anche le mie lacrime bagnarono quella terra abituata da sempre ai pianti e alla disperazione. Mio fratello maggiore mi diede i primi rudimenti, tra i quali l’attenzione che dovevo avere e mettere per non far allontanare le bestie dal tratturo. Invece l’altro fratello, che mi aveva fatto un bel bastone di legno, mi indicava dove colpirle per fare in modo che obbedissero.
Trascorremmo la prima notte dentro una casa di tufo o quello che rimaneva della costruzione abbandonata da tempo, mentre i cani stavano fuori a fiutare l’aria per segnalare l’arrivo di ospiti non graditi, che si trattasse di animali o uomini.
Ripartimmo molto presto, come tutte le mattine, quando il sole non si era ancora levato.
La strada era lunga, non dovevamo perdere tempo, era importante si arrivasse a destinazione il prima possibile.
Mi sentivo molto fiero di quel lavoro e della responsabilità che mi era stata data, anche se ero un po’ triste. In fondo era la prima volta che mi allontanavo da casa per così tanto ed ero ancora un ragazzino.
Venni però ripagato qualche giorno dopo, quando davanti ai miei occhi si mostrò un immenso panorama a me sconosciuto: la montagna!
Con la sua roccia argentea e i raggi di sole che si rifrangevano, dava l’effetto di mille scintille illuminando tutto ciò che la circondava. Poi di colpo uno stridio in cielo che mi fece alzare lo sguardo: erano le aquile che volteggiavano. Stavano come sospese in quell’immenso cielo azzurro, erano bellissime ed eleganti amico mio. Quella era la loro montagna e ne stavano a guardia come i cani facevano con le nostre pecore.
Ricordo che avevo portato un vecchio libro di poesie delle medie. Le poche volte che ci ero andato, mi era sempre piaciuto come a scuola leggevano le poesie. Ma questo è un segreto non dirlo a nessuno, tanto chi ci crederebbe: un pastore che legge poesie, figurati.
Comunque una sera che ricordo molto fredda, si stava più vicini del solito al fuoco e tra quelle ne ritrovai una contrassegnata con la matita, segno che mi fosse piaciuta tanto. Ora te la recito e perdonami se non sarò così fluente, ormai sono vecchio.
Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all'Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti."

Ero come rapito da quell’uomo, dal suo racconto, dalla poesia…
Io, un cittadino che non si era mai avventurato lontano da casa e nemmeno avvicinato a una pecora, ero stato trasportato in un passato e in luoghi a me del tutto sconosciuti.
Il racconto proseguì ancora in modo semplice e naturale, come avviene ogni giorno quando il sole cede il posto alla Luna. Quando un uomo così, un vecchio pastore, ha così tanto da dire, tutti dovrebbero fermarsi ad ascoltarlo.
Trascorsero un paio d’ore poi ci alzammo e mi sembrava ci sentissimo entrambi più leggeri. Avevo la sensazione fosse destino che c’incontrassimo per dare a entrambi una possibilità: a lui quella di raccontare una storia e a me di poterla sentire.
La mano che strinsi aveva lavorato per tutta la vita ed era callosa e schietta. Era la mano di un uomo che quel giorno si era confidato, rendendomi partecipe della sua faticosa e avventurosa esistenza, rendendomi grato per tutto ciò che avevo ricevuto da lui e dalla vita.

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