“Tutta Torino balla”, intitola “L’Unità’” del 23 aprile 1945, ma in realtà accade in ogni luogo d’Italia: nelle piazze e nei cortili, nelle aie delle cascine o ai bordi delle macerie accumulate. Spuntano le balere con un grammofono e poco altro e, quando va bene, un’orchestrina suona con strumenti rimediati. Tutto è improvvisato, perché tutto è nuovo. Gli italiani tornano a respirare l’aria della libertà seguendo le cadenze del “boogie-woogie”, la danza importata dai soldati americani, che li aiuta a sgravarsi dai carichi terribili della guerra appena terminata.

 

I giovani soprattutto hanno voglia di fare festa, di mettersi in mostra, vestendo vecchie divise trasformate in indumenti civili, mentre i pochi capi “nuovi” sono confezionati con scampoli di stoffe sopravvissute al tempo o con pezzi di vecchi abiti messi insieme come un patchwork. I pantaloni non hanno le pences e vestono aderenti.

 

Da un racconto di mio padre. «I primi mocassini visti nel borgo li calzava Cianco, anche soprannominato il “gagà”. Erano marrone chiaro, punta quadrata, il tacco alto due dita. Perché si notassero, ogni tanto il giovanotto si tirava su i pantaloni, come se dovesse camminare nel fango e mormorava, ma quel tanto per essere udito: «avevo paura che mi facessero male, invece». Glieli aveva comperati la madre, vedova, per tenerlo quieto. La donna tirava la vita con i denti e Cianco, unico figlio,  la faceva soffrire: non aveva voglia di studiare e meno ancora di lavorare. Abitavano in una stanza con un lenzuolo appeso a un filo per separare la cucina dalla camera da letto. Una casa con una latrina per piano sul ballatoio, usata da cinque famiglie e quasi sempre davanti alla porta c’era qualcuno in attesa che si contorceva aggrappato alla ringhiera.

 

La guerra era finita da poco, erano ancora di moda i pantaloni alla zuava, la maglia con le greche, i cerchietti per tenere su i capelli fatti con la molla di una sveglia. Cianco, invece, si muoveva in giacca con le patte, pantaloni con risvolti, camicia bianca con polsini e cravatte dai colori chiassosi che sul tutto spiccavano come un prete in tonaca sulla neve.

 

Il ragazzo frequentava le sale da ballo del borgo e più assiduamente una, dove l’entrata costava poco e, se alla cassa c’era il vicino di casa, nulla. In realtà era una balera in cantina, dove per raggiungere la pista bisognava scendere una ripida scala in pietra. I giovani ballavano con la sigaretta tra le labbra e non di rado si avvertiva il crepitio e l’odore di capelli bruciati, specialmente quando la luce diventava blu o rossa per un tango e le coppie si stringevano.

 

Cianco era alto, asciutto, tutto basette e capelli che brillavano d’olio d’oliva. Nonostante i peli che gli uscivano dal colletto della camicia solleticandogli la gola, piaceva. Se il caposala annunciava “dama a scegliere”, le ragazze se lo contendevano.

A metà serata, quando c’era la pausa degli orchestrali, l’amico fumava una delle due sigarette che acquistava sciolte: si sedeva avendo cura di tirare su i pantaloni, impugnava lo zippo e l’accendeva più con le scintille che con la fiamma.

Cianco non mise più piede nella sala da quando, durante un frenetico  “boogie woogie”, un mocassino perse la suola e dalla calza strappata uscirono dita  che avevano il colore della terra.

 

Serata negativa anche per me. Non sapevo ballare e assomigliavo a un orso che deambulava su due zampe. Frequentavo la stessa balera di Cianco, più che altro per vedere una ragazzina che oggi sarebbe considerata anoressìca. Le ero sempre a pochi passi e facevo tappezzeria nella sfrenata eleganza di una maglia con cordoncini intrecciati, pantaloni alla zuava, pedalini a quadri che quando camminavo mi finivano sotto i calcagni, sandali e capelli modellati con l’acqua zuccherata. 

 

Una volta, arrivato il momento dei “zun pa pa”, trovai il coraggio di invitarla. L’avessi mai fatto: già la stringevo quando, “a gentile richiesta suonarono tre tanghi. Per poco non mi misi a piangere: un paio di movimenti e la mia dama si rese conto dell’incompatibilità tra i miei piedi e la musica. Mi piantò a metà “Cumparsita”. Rotto il ghiaccio della timidezza, aspettai una triade di valzer e quando fui certo che le esecuzioni non sarebbero cambiate, le chiesi nuovamente di fare coppia. La giovincella era seduta e stava parlando con un’amica. Accennò ad alzarsi, ma quando mi riconobbe, disse: “No, grazie”. Diventai rosso fragola e mentre mi allontanavo, la sentii dire all’amica, con tono sprezzante: “Al’è nen bun”».

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