IV

 

Sono passati otto mesi dal mio primo incontro con Karimov. Un allievo in gamba, ha appreso in pochissimo tempo trucchi che si imparano almeno in due tre anni. La sua fama di grande stratega è meritata. 

Da una settimana lo vedo scuro in volto, come se ci fosse qualcosa che lo preoccupi enormemente. Ivan Karpov, il capo dei ribelli uzbeki, ha dato inizio alla guerriglia contro i governativi a nord del Paese, e ciò preoccupa non poco Karimov.

Inizialmente non aveva nessuna intenzione di venire a Vienna, dove ora ci troviamo, ma la passione per il gioco, alla fine, è stata più forte dei problemi di politica interna.

Al tavolo è impegnato con il vicepresidente della FAO e con due alti dirigenti NATO. Ancora sta coprendo bene il suo gioco, per studiare meglio quello dei suoi avversari. Adesso è andato a vedere un forte rilancio da parte di uno dei dirigenti NATO: si tratta di un bluff perfettamente eseguito. L’altro rinuncia subito a controrilanciare.

Uno dei suoi collaboratori gli si avvicina per sussurrargli qualche cosa all’orecchio: pare che la notizia appena riferita sia ottima. Il suo volto si illumina. Si alza immediatamente dal tavolo da gioco e si dirige verso l’uscita. Risponde immediatamente al mio sguardo interrogativo.

- Signor Asvero, lei avrà la fortuna di assistere ad una condanna a morte. -

 

V

 

Ivan Karpov esce insanguinato dalla sala delle torture. Avrà confessato al capo della polizia segreta i nomi dei suoi complici, dopo ore di sevizie. So come funziona, perché molto tempo fa, anch’io ho e sono stato torturato, so cosa vuol dire togliere la dignità ad uomo e perdere la propria. Domani mattina Karpov verrà impiccato e forse stanotte tutti i suoi complici verranno trucidati dagli uomini di Karimov.

Mentre viene condotto nella sua cella mi passa davanti. I nostri sguardi si incrociano. E’ un attimo: rivedo quello stesso sguardo di un caldo pomeriggio di un’eternità fa, quell’espressione di pietà nei confronti di coloro che lo hanno torturato e che tra poco lo manderanno a morire come un cane.

Qualcosa scatta in me: devo fare qualcosa per quell’uomo. Improvvisamente tutto il mio cinismo e la mia indifferenza nei riguardi del mondo svaniscono di colpo.

Mi volto verso Karimov, che ha assistito insieme a me alle sevizie del suo nemico. Lo prendo in disparte.

- Presidente Karimov, Karpov non deve morire. Lo sbatta all’ergastolo, lo mandi ai lavori forzati, ma non lo faccia impiccare. -

- Signor Asvero, mi dia un solo motivo per il quale non dovrei far impiccare quel bastardo. E’ il capo della rivolta, un nemico da annientare. Non tornerò sulle mie decisioni. -

Mentre fa per andarsene, mi scappa una frase detta con un flebile tono di voce.

- E’ un deja-vu, un maledettissimo e fottutissimo deja-vu. -

Karimov deve aver sentito, si volta e mi chiede spiegazioni.

Ed è a questo punto che comincia il mio racconto, un racconto triste e doloroso, che porterò dentro per chissà quanto tempo.

 

Mezzogiorno. Il sole non è ancora alto su Gerusalemme, la città tanto odiata dal quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato.

Entro nel palazzo consolare e mi affretto ad incontrare Pilato. So che Yeoshua è stato preso, voglio convincere i romani a non mandarlo a morte. In quanto capo del servizio segreto le informazioni che ho raccolto sul nazareno non giustificano la condanna.

Conosco bene Yeoshua, siamo cresciuti insieme, essendo della stessa città. Tre anni fa lui capì subito che ero stato mandato da qualcuno molto in alto per controllare ogni minima sillaba venisse proferita dalla sua bocca; non mi cacciò, mi accolse come suo discepolo durante le predicazioni, noncurante del fatto che fossi una spia.

Io ho creduto in lui, ho sempre sperato che fosse davvero il tanto agognato Messia, anche se ho dovuto ricredermi: Yeoshua era solo un individuo innocuo, un santone che predicava la cosiddetta lieta novella, la pace e l’amore universale, in sostanza si trattava solo di un povero folle. Non capiva che bisogna cacciare questi usurpatori dei romani, con il suo ascendente avrebbe potuto aiutarmi nella mia missione di doppiogiochista: carpire il maggior numero di informazioni sui romani per poi andarle a riferire a Baraban, il capo della rivolta.

- Console, non mandi a morte il nazareno. -

- Troppo tardi Hasver, la folla ha deciso che il tuo amico Yeoshua dovrà essere crocifisso. Ho provato a salvarlo, ma non c’è stato nulla da fare. -

- E’ innocente. -

- Lo so. Ma voglio evitare altre insurrezioni. A quanto pare Baraban è molto ben voluto dal Sinedrio, e questo mi preoccupa non poco. Dopo la crocifissione di Yeoshua diventerai l’ombra di Caifa e mi riferirai se ha dei contatti con i ribelli. -

Nel frattempo due soldati portano Yeoshua per l’ultima volta davanti  Pilato. Con un cenno del mio capo si scostano e mi consentono di poter parlare da solo con lui.

- Yeoshua, forse un modo per salvarti c’è. Baraban ormai è compromesso. Lo accuserò di essere il capo dei ribelli, ho le prove. -

- No, il mio tempo è ormai finito Hasver. -

- Puoi ancora vivere e aiutarci nella nostra causa. Con la tua influenza possiamo liberare il nostro popolo. -

- Non farai niente di tutto ciò. E poi il nostro popolo, col mio sacrificio, è già salvo. -

- Smettila con le tue idiozie! -

I due soldati ci interrompono e conducono Yeoshua fuori dal palazzo.

- Hai qualcosa da dichiarare, Hasver? - mi chiede Pilato avvicinandosi.

- Nulla, procuratore. -

 

Il sole è ormai alto sulla strada che porta al Golgota. Incrocio per l’ultima volta lo sguardo di Yeoshua.

- Perché sei stato così ostinato? - urlo con disprezzo verso di lui – volevi morire, eccoti accontentato. -

E a questo punto vengo investito da quello sguardo che mostra la sua pietà nei miei confronti.

- In verità io ti dico, Hasver: farai molta strada, e mi attenderai fino alla fine del tempo, quando finalmente capirai il senso di tutto questo. -

 

 

- Tu sei… -

- Mi hanno chiamato in molti modi, uno dei quali è l’ebreo errante, condannato a camminare e a vagare per il mondo fino alla sua fine. -

Karimov ascolta a bocca aperta il seguito della mia storia, le tribolazioni a cui sono stato sottoposto nel corso dei secoli, la mia lotta col mondo che non ha fatto altro che maledirmi e perseguitarmi, e a cui ho risposto colpo su colpo, con la mia indifferenza ed il mio cinismo.

- Se farai uccidere quell’uomo, farai una bruttissima fine: lo sguardo di Karpov è maledettamente simile a quello di Yeoshua. Il che mi fa pensare che sia nel giusto. Vienigli incontro, rendi il tuo Paese un posto migliore. Alzati dal tavolo da gioco finché sei in tempo, perché la tua mano, per adesso, non è vincente.

Lo lascio ancora a bocca aperta e faccio per andarmene.

Ho come l’impressione che Karimov mi ascolterà. Adesso ho soltanto voglia di andarmene da Tashkent, penso che il mio tempo qui sia finito.

Una volta all’aeroporto non faccio fatica a scegliere la mia nuova destinazione: mi manca Gerusalemme, la città tanto odiata dal quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato.

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