L’aria gelida delle tre di notte sbatte sulla mia polo italiana, il vento freddo ci spinge nel primo coffee aperto
davanti ad un tè con dentro quattro bustine di zucchero e un caffè rigorosamente amaro. Dopo aver avidamente vuotato le tazze, il giubbottino sportivo che indosso ce lo mettiamo come coperta, così sono senza e le braccia per il freddo le sento sempre meno, ma a chi importa?
A me no, forse a lei sì, me lo deve aver chiesto anche un paio di volte ma da come sta dormendo ora non ho il coraggio di toglierle quel riparo, proprio no. Tutto è così calmo: nel locale ci siamo solo noi due e quattro camerieri che si fanno compagnia. Fuori non si sente nemmeno il rumore delle macchine che di solito intasano le vie. Sono fermo, semi sdraiato sul divanetto del coffee, sto bene, ho quasi sonno. Ci sono quei momenti in cui stai per cadere addormentato ma qualcosa te lo impedisce: un pensiero, una sensazione, un cuscino troppo caldo o una coperta piena di pieghe. Comincio a muovermi pur facendo attenzione a non svegliarla. Dov'è finita la serena quiete di prima? Dove il sonno che pian piano mi stava trascinando a sé? Così, mentre mi pongo queste domande, qualcosa mi lacera: una fiammata, di quelle che partono dallo stomaco, te lo stritolano e poi salgono verso il viso e le orecchie che diventano rossi e caldi. Una domanda a cui non riesco a darmi risposta: cosa mi aveva detto mentre camminavamo sulla Prospettiva? Io ricordo solo di averla baciata, da Ligovskij fino a Kazanskij, e poi ancora. Quel dubbio, però, mi taglia il respiro. Ma il suo volto nascosto sotto il mio braccio, nascosto ma non abbastanza da impedirmi di vedere i suoi occhi chiusi, le sue labbra distese, la sua fronte serena, mi fa dimenticare tutto. Per non so quante ore stiamo così, ho freddo, fame, sonno ma non sono mai stato meglio. E poi quel senso di angoscia se ne va via piano piano... mi addormento abbracciato dal profumo dei suoi capelli.
La metro riapre fra poco, ci svegliamo e usciamo fuori. Sono tutto infreddolito e intorpidito dalla dormitina nel coffee, sulla Prospettiva non c’è quasi nessuno, un po’ di polìs ogni tanto ma hanno sonno anche loro e io ho il mio lasciapassare con me – ci vediamo al metal detector della metro domani mattina, stronzi. 
Piazza Vosstanija dorme, pensare che di giorno è sempre piena di macchine che si infilano fra corsie inesistenti e precedenze esistenti non rispettate; ma in Vosstanija non ci andiamo proprio, ci fermiamo qualche decina di metri prima per entrare in metro a Majakovskaja. Scale mobili infinite come al solito e siamo sulla banchina, qualche bacio, a domani.
Le porte della metro si chiudono con un rumore insolito, il treno mi guarda mentre parte, i passanti - pochi, pochissimi - si girano verso di me; le luci si spengono, rimane soltanto una lampadina che funziona male calata con un cavo nero sopra la mia testa. Non si vede altro. Quella fiammata... mi sento come fossi sott'acqua a mille metri di profondità e sopra una montagna a seimila metri d'altitudine. Tutto è così opaco: i volti della gente, le scritte in cirillico, le piastrelle del pavimento...Improvvisamente ricordo: Australia. Ecco cosa mi aveva detto: due settimane e parto per l'Australia. Le luci si riaccendono, i passanti tornano a camminare, il treno si allontana con un cigolio più stridente del solito. Sulle scale mobili non penso a niente, proprio a niente, eppure credevo fosse impossibile non pensare a nulla nulla. Insomma, anche quando non pensi nulla hai comunque un'immagine, una parola, una canzoncina che ti passa per la testa.È impossibile non pensare. No, non lo è. Passano due minuti o forse venti, forse mi sono fermato dopo la prima rampa di scale, la gente mi ha urtato, mi ha rimproverato, mi ha urlato di spostarmi, di non stare lì impalato, e io non ho sentito. Passa il tempo che passa e sono fuori.
L'aria fredda del mattino di Piter mi accarezza il volto e io capisco, Maria, che questo è l'unico amore che potremmo mai avere.


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