L’acqua era fredda ma non sgradevole, forse si mescolava troppo rapidamente alla luce del giorno, disperdendosi nel biancore scivoloso della falesia. Brandelli di pino le si aggrappavano, nell’illusione stolida di conquistarla. Ma la mercyless lady non consentiva quella violenza, si lasciava solo accarezzare dai venti di Scirocco, unendo la sua eco ai lamenti notturni del mare.
Dovetti riconoscere come fosse bello guardarla dal blu, perso nel sole e nei miei pensieri.
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Nulla succede mai per caso. La vita ordinaria è regolata da esso e dai suoi ritmi, non gli avvenimenti importanti.
Quella domenica ero uscito con mia moglie e mia figlia, nell’abbraccio solare di quel fine gennaio così assurdo. Il termometro della piazza, da tempo immemore quasi impiccato a lato della tetra Farmacia Zannotti, affermava come vi fossero quasi ventidue gradi. Mia figlia non se ne curava e faceva bella mostra di sé, intabarrata stretta nel suo cappottino bianco. Una femme fatale in erba, che illuminava, con l’incarnato fanciullesco delle guance, gli occhi di chi la ammirava in silenzio.
Mia moglie osservava la teoria di tigli scheletriti, a braccetto della sua amica del cuore. Conversava con Antonella e io non riuscivo a non pensare a quanto fosse bella.
“Il clima è impazzito” mi disse Antonella con gravità “colpa dell’effetto serra.”
Doveva essersi fatto una cultura nottetempo sulla meteorologia, probabilmente su uno dei settimanali scandalistici che affollavano la loro casa di amorazzi prefabbricati in serie.
“Hai profondamente ragione” gli risposi con noncuranza, notando le gemme procaci del tiglio che ci stava più vicino.
Scorrevamo in un flusso di persone che affollavano il Viale della Villa. Persone di cui condividevamo l’assoluto disimpegno dei discorsi e il pensiero ossessivo verso il pantagruelico piatto di orecchiette con il sugo misto. Un rito ipercalorico cui nessun concittadino ha mai osato sottrarsi, a memoria d’uomo.
Incontrammo Gabriele e sua moglie che camminavano a grandi falcate verso la Villa. Due ragazzi normalissimi che sopportavano di buon grado il fatto di essersi sposati. Lo facevano talmente bene da aver messo al mondo una coppietta di piccole repliche di se stessi, perennemente prede di una gamma perniciosa di influenze varie.
“Gabriè, dove vai?”
“Siamo invitati da mia suocera.”
“In ritardo, eh?”
“Come al solito.”
Pacche sulle spalle, per ricordarci energicamente che eravamo amici. Nonostante le incomprensioni e gli incontri diradati come i capelli del mio amico.
Ecco! Il caso.
“Scusami, Piero. Ieri ti ho pensato. Per caso un mio cliente mi ha detto che vuole vendere un pezzo di terra vicino alla mia.”
“Ma c’è da condonare?”
“Ha la concessione.”
“Fammi sapere” gli dissi mentre veniva fagocitato dalla stretta frettolosa della moglie.

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Il terreno era simile a quello in cui sorgeva la casa del mio amico. Come esso distava pochi passi dalla statale che portava a Baia delle Zagare, su tornanti che violentavano le cime quasi calve di quei contrafforti garganici.
Mia moglie era stata contraria fin dall’inizio a quell’acquisto, ma non me ne ero curato. Il profumo del luogo mi aveva sempre affascinato: era una mescola siccitosa di olivo e resina di pini d’Aleppo che diffondeva la sua magia fino al mare, che rumoreggiava tempestoso cento metri più in basso.
Indebitandomi ben oltre il lecito avevo fatto costruire in economia una casetta bianca, mimetizzata tra una palizzata di fichi d’India e diverse piante di limoni. Ne avevo fatto un rifugio in cui riflettere, lontano dal mondo e dalla frenesia del comunicare via telefonino.
I vicini erano dotati di gentilezza agreste: nonostante le poche parole di elementare cortesia scambiate, i cesti di fichi e le bottiglie di olio non mancavano mai. In quell’olio ritrovavo il profumo dell’orizzonte salso che era spesso mio solo compagno, nei miei sabati di fuga dal tutto.

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