Oh, non ha più senso chiedere e chiedermi se vi ricordate o meno di me. Scrivo di sorrisi, registro su carta e sul web smorfie e relax dolce o di cuore, anche questa volta ricordare o meno con che racconto ho cominciato a raccontarmi scema di importanza. Alla fine, conta solamente il momento. Giusto? Allora benvenuti. Benvenuto a me, che mi saluto all’apice di una nuova serata nell’eclettica Berlin. Sto ascoltando deep progressive, ma non da altoparlanti, questa volta. Mentre scrivo, a donarmi musica sono cuffie che ho rubato al proprietario dello stesso letto su cui sono sdraiato a pancia in giù. Adoro sentire cacofonie di canti tribali mescolati al ritmo: sa così di vecchio e nuovo. Moderno e ancestrale. Sotto, sono certo accompagni il tutto un po’ di traffico berlinese. Mi fa strano perdermi in flussi di pensieri così: lascio che la penna scorra così come scorre la tensione via da me, mentre accolgo insolito rilassamento donatomi da un orgasmo pulsante ma delicato. Il profumo intenso di una rosa, avete presente? I petali sono delicati, il suo aroma pungente è incredibile come le sue spine. In questo momento, mentre immagino l’acqua di una doccia a me sconosciuta scorrere sul corpo di chi mi ha accarezzato e che io ho baciato languidamente, ridacchio tra me e me, una risata sardonica, sentendo la voce immaginaria della solita e cara psicoterapeuta che bisbiglia per non disturbarmi: “Alex: ti stai godendo il momento? Ascolti musica meno assordante, e crei poesie sulle rose. Bravo, Alex”. “Forse ti stai innamorando, Alex”. Questa non è la voce della psicologa. Non è neppure quella di mia madre. Figuriamoci quella di mio padre. È la mia. Quella di quel burlone del mio inconscio che non sa se essere sarcastico o piacevolmente stupito, e che adora lasciarmi in questo limbo dove aleggiano pensieri, emozioni, ricordi, ultimi spasmi che vibrano nel mio ventre stiracchiato sulle lenzuola. È strano. Normalmente sarei in ansia, plasmando in me l’idea dell’amore. Centinaia di volte, quando mi ha sfiorato, poi l’ho soffocata il più in fretta che potevo in un cocktail o in un amplesso anonimo, illuminato da luci al neon. A volte ho regalato urla di frustrazione e paura allo scorrere della metropolitana: con il vento del passaggio del treno ho scacciato residui di traumi che mi dicevano di non saper amare. Di non potermi lasciar amare. Questa volta, caro diario, cara psicoterapeuta, è diverso…e non so neanch’io perché. Forse a volte non sapere è una benedizione. Incrocio le caviglie, il mio corpo nudo si lascia baciare dalla luce delle lampade a lava che ho qui attorno, e ridacchio ancora perché so che qualche amico direbbe che sembro una ragazzina nella sua cambretta. Dio, potrei continuare a ridacchiare tra me e me così, perché mi viene spontaneo mandare al diavolo persino questa fantasia di giudizio innocente. Mi piace essere qui, sapendo che non sono “nella mia cameretta”. Forse per la prima volta mi piace ricordarmi di essere un giovane adulto, sulla schiena il profumo lasciato che sa di pepe e fiori recisi, il corpo piacevolmente “sporco” di lui. Di questo pomeriggio. Della vita. Devo smetterla di ridacchiare? Perché non voglio ripetermi, come sempre, “Psicologa, sei fiera di me?” Ho voglia che questo momento sia mio, e mio soltanto. Mentre l’unica cosa che permetto è che la musica che adorabilmente disturba quella che sto ascoltando io sia quella del ragazzo che a breve tornerà da me. Musica “goth”. Si sta lasciando andare anche lui. Potrei innamorarmi di qualcuno così? La faccia di papà sembra quella di un vecchio che spera di sembrare arcigno e invece è solo noioso. Mamma è un pinscher terrorizzato dalla vita. Adoro sapere che loro non sono qui. Qui, ci sono solamente io. E non mi giudica nessuno. Forse neanchio, per una volta, giudico. Ah, la musica sta pompando un po’ di più nelle cuffie, e mi rotolo lentamente come un’onda di muscoli sottili e pelle nuda. Mi chiedo se, pensandomi, si sta toccando. Io lo faccio. Il sorriso si rilassa mentre con una mano scivolo fino al mio inguine e scopro una placida erezione. Ci gioco. Non mi giudico. Sospiro. Potrei scrivere poesie fatte dei “tic tic” della pioggia sul vetro. Scrivo questo diario invece. La poesia non ha forme, come non voglio averne io. Voglio scivolare su tutte queste forme di questa nuova vita come scivolo sul mio corpo. Alex: ma cosa provi? Libertà. Di amare. Di poterlo fare. Di amare me. Chiamatelo principio d’amore. Friedrichshain è un quartiere che mi pulsa attorno. Potrei strofinare su queste coperte una cartolina che lo ritrae e mandarla a “casa”. Ma non sono un tipo vendicativo. Non voglio esserlo. “Delusione”. “Spatriato”. Nessuna vendetta nel mio cuore, per loro. Questa è la mia rinascita? Sono duro. Accaldato. La mano che mi accarezza ora la schiena è fresca. Mi innamoro del sorriso sardonico e sincero che si dipinge sulle mie labbra, prima di voltarmi. Caro diario, cara psicoterapeuta: racconterò di rose a Berlino in un appartamento lontano da ogni giudizio. Di pioggia e gemiti. Della bellezza dell’incertezza. Carezze scivolano tra le mie natiche. Mi faccio adepto di questo culto di possessione liberatoria. Se mi sto innamorando, forse arriverò a danzare, più tardi. Stanotte. A urlare di gioia al vento della metropolitana. 

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