Era una notte d’ottobre cupa e silenziosa e la foschia che c’era per le strade e tra gli alberi ne raddoppiava la cupezza. Nel cielo non c’erano stelle, ma solo una pallida luna, mezza immersa in un mare di cirri lunghi e sottili. Mi svegliai nel cuore della notte, mi era sembrato di sentire qualcuno bussare alle finestre del mio balcone. Mi precipitai fuori per vedere se ci fosse qualcuno, ma non c’era anima viva, e anche le strade erano deserte e silenziose. L’orologio del Comune segnava le tre e all’improvviso, quel silenzio spettrale fu interrotto dal lugubre canto di una civetta, che cantava da qualche angolo buio del mio cortile. Probabilmente era stata lei a urtare contro i vetri della mia finestra ed ora mi stava anche cantando in casa. Mio padre diceva che le civette sono uccelli del malaugurio e se ti urtano contro i vetri delle finestre o ti cantano in casa, presto ti colpirà una brutta sventura. Rientrai in casa, presi il fucile, e mentre uscivo di nuovo sul balcone, dissi con voce sommessa tra me e me: «Dannata civetta, ti insegno io a portare sfortuna nelle case della brava gente.» Mi guardai in giro e finalmente riuscii a scorgere tra le fronde del nespolo, due occhiacci rotondi e gialli, accesi nel buio. Mirai e, Bam!… Sentii un battito d’ali e vidi quella maledetta civetta volare via. «Dannazione, ti ho mancata!», esclamai con disappunto, «ma se torni a cantare in questa casa, giuro che ti ammazzo!», aggiunsi con aria seccata. Proprio in quel momento sentii dei nitriti provenire dalla stalla. Scesi giù, accesi le luci e vidi il mio cavallo che respirava affannosamente, come se avesse corso per tutta la notte, ma la cosa più strana era che sulla criniera aveva tante piccole treccine, strette e perfettamente intrecciate. Non riuscivo a spiegarmelo e mi chiedevo chi avesse perso tanto tempo, in una notte come quella, a intrecciare la criniera del mio cavallo. Il giorno che seguì alla notte venne a bussare alla mia porta la mia vicina di casa, la signora Luisella Parini, venne a chiedermi di quegli spari che aveva sentito nel cuore della notte. Le raccontai della civetta e della criniera del cavallo intrecciata; mi sembrò molto sorpresa da quel racconto, ma poi disse con convinzione: «Questa è opera delle janare, signor Antonio.»
«Le janare?», replicai perplesso.
«Sì, le janare sono streghe che hanno venduto l’anima al diavolo, in cambio di sapienza e poteri magici. Il loro nome deriva da Giano, il dio bifronte che ha una faccia davanti e una dietro, e proprio come il dio pagano anche loro hanno una doppia entità: di giorno sono persone insospettabili e di notte diventano streghe, e sanno fare molti malefici. Hanno il potere di far appassire piante, fiori e riescono a far marcire la frutta stipata nei depositi.»
Non avevo mai sentito una storia del genere, rimasi sbalordito.
«Luisella, ma voi come fate a sapere tutte queste cose?», chiesi.
«Quando ero una ragazzina c’era una mia vicina di casa che era una janara, ma nessuno lo sapeva, fino al giorno in cui accadde un fatto che la smascherò. Aveva un occhio storto e quando il suo sguardo mi cadeva addosso mi si gelava il sangue. Molte persone del paese si ritrovavano i cavalli con le criniere intrecciate, ma accadevano anche tanti altri fatti strani. Sentite questa: Da un po’ di tempo girava per il cortile di casa mia un gattaccio nero, che per forza voleva entrarci dentro casa. Una volta me lo sono trovato dentro la mia cameretta, gridai e quello subito scappò dalla finestra. Mia madre decise di dargli una bella lezione, così non sarebbe più tornato. Una sera d’inverno, mentre io e lei eravamo davanti al camino, lasciò la porta della cucina aperta per invitarlo ad entrare e disse: “Se entra quel gatto lasciagli fare tutto quello che vuole e non disturbarlo.” Il gatto si accostò, dapprima sospettoso all’ingresso, ma poi, quando vide che nessuno gli era ostile entrò e venne ad accovacciarsi al caldo vicino al camino. Mia madre lo lasciò fare, ma dopo un po’ prese la paletta di ferro, che usavamo per raccogliere la cenere e la lasciò per un poco tra i carboni ardenti, e quando divenne bella rovente la picchiò con forza sulla faccia del gatto, il quale con un miagolio diabolico saltò sul viso di mia madre e glielo graffiò selvaggiamente. Poi prese le distanze, incurvò la schiena e tirò fuori i suoi lunghi artigli affilati, pronto ad attaccare di nuovo, ma per paura che mia madre potesse ancora colpirlo con la paletta arroventata, fece due salti sulle pareti per evitarla e scappò via. Il giorno dopo scoprimmo che la nostra vicina di casa, la signora Luciana aveva tutta la faccia bruciata proprio sul lato dove mia madre aveva colpito il gatto. Lo raccontammo in giro e da allora tutti cominciarono a chiamarla “Luciana la janara”, e la tenevano a distanza. Dopo un anno circa da quella storia del gatto nero, se ne andò e nessuno la vide più.»