Un osservatore superficiale e ignaro potrebbe pensare, sentendomi parlare, che io provi un certo astio verso questi luoghi al di sopra, al di sotto e nelle vicinanze del Po. Vero è che certi folcloristici comportamenti e meschinerie tipicamente locali non inducono a buoni pensieri, complice anche la bassa retorica elettorale di alcuni tristi personaggi; ma la mia estrema curiosità per la Natura (sia quella con la “enne” maiuscola, sia quella umana) mi costringono a cercare e trovare il bello anche qui tra le risaie e le nebbie. Si sa, gratta la crosta di un curioso e sotto sotto scoprirai un ottimista; il giorno in cui sono nato l’ottimismo si doveva vendere a quattro chili per un soldo, perché ne ho sicuramente più della dose umanamente accettabile, ma tant’è.

 

Una delle abitudini di queste genti che mi ha sempre fatto simpatia è quella di anteporre un articolo determinativo anche ai nomi propri delle persone. “Il Mario”, “la Pinuccia”, “il Cecco”: crea un senso di appartenenza difficilmente spiegabile a parole, e che non è solo tipico dei piccoli comuni quale quello dove vivo; “il Mario” è il nostro Mario, mica un Mario qualsiasi, sia in paese che in città.

E così era anche per “la Sabina”, con una connotazione in più: data l’avvenenza di quella giovane – rimasta leggendaria anche dopo tutti questi anni – molti avrebbero voluto tradurre in pratica l’appartenenza di cui sopra, farla diventare la loro Sabina, ma è noto che lei ebbe occhi e cuore solo per un travolgente quanto contrastato amore.

 

Sabina era la terza figlia di Gaspare Ghisio, vedovo, nullafacente e gran frequentatore di osterie, ex camicia nera della domenica e fedele alla gloria rivisitata dell’antica Roma (aveva chiamato gli altri due figli Romolo e Augusto), detto dagli amici “il Gasparin” in sua presenza e “Nansitùt” (“innanzitutto”) in sua assenza, data l’abitudine di pontificare con supponenza in qualunque discussione fosse coinvolto e di cominciare ogni veemente discorso con la suddetta parola, specie dopo il quarto o quinto bicchiere del suo vino preferito, la Bonarda.

I tre figli di Gaspare erano cresciuti, tra botte e bestemmie, in antitesi alle sciagurate abitudini del genitore: avari di lingua quanto svelti di braccia e schiena, grandi lavoratori e sostegno della famiglia, pagatori dei debiti del padre, che indulgeva anche alle carte e - come se non bastasse - alla regalìa facile verso alcune donne di disinvolti costumi disposte ad accontentare le sue ubriache voglie. Fino almeno a quella famosa volta in cui i due figli maggiori, avendo ricostruito velocemente e a regola d’arte il fienile incendiato di un ricco agricoltore loro vicino, ne ebbero promessa – oltre alla paga pattuita – una consistente gratifica. Parecchi soldi, e buoni, per la modesta famigliola. I due ragazzi ne parlarono con orgoglio la sera stessa in casa, fantasticando su come avrebbero potuto utilizzare quell’insperata manna per aggiustare casa, fare scorta di viveri per l’inverno, comprarsi un vestito nuovo, metter via qualche cosa per la dote della sorella minore.

Quel gruzzolo sembrava crescere a vista d’occhio nelle intenzioni e illusioni della prole di Gaspare, ma fu un’imprudenza parlarne a cospetto di costui. Detto fatto: il giorno dopo Gaspare stesso si presentò a casa del proprietario del fienile, mentre i due figli erano al lavoro nei campi, richiedendo la paga e la gratifica promesse. Il committente pagò, parendogli normale che il padre dei due giovani venisse ad incassare la somma per conto loro.

Subito dopo Nansitùt fu visto, in ordine: recarsi da Dario il sarto per acquistare un abito usato – giacca, pantaloni e panciotto, nonché una cravatta a farfallino - adattato velocemente addosso a lui; entrare in casa della Santina, in arte Dolòres, uscirne dopo un’ora a braccetto con lei che aveva indossato la sua migliore parrucca bionda e un vestito a fiori corto e aderente che ne metteva in evidenza le abbondanti lardosità; recarsi entrambi alla locale stazione delle corriere per prendere la prima in partenza, destinazione ignota. Dopo più nulla per una settimana e oltre.

Ritornò, il prodigo, una sera di quasi dieci giorni dopo, ubriaco, senza un quattrino e col vestito rovinato. Spalancò la porta di casa e ringhiò ai figli esterrefatti, ansiosi di spiegazioni: “Non mi rompete i coglioni, sennò sono guai!”. Poi se ne andò in camera sua, dopo dieci minuti già russava da far tremare i muri. I due figli maggiori capirono al volo: niente più soldi, spesi in chissà quali bagordi, tra bettole, donne e tavoli di carte; niente più fantasticherie sul quel gruzzolo mai così sudato, sognato e poi svanito come un arcobaleno. Non ci fu bisogno di parole, i due giovani si compresero a sguardi. Nella cantina di casa non mancavano robusti legni per farne manici per falcetti, e così il Gasparìn quella notte fu servito della stessa moneta che per anni aveva elargito ai figli a piene mani; non osò uscire di casa per lungo tempo, che ancora dopo un mese portava i segni della ruvida lezione. Da allora diventò – preso dal nuovo sacro terrore nei confronti della sua stessa famiglia – un fuoco di paglia, un mulinello di vento senza capo né coda, una cosa da niente che non faceva più paura a nessuno. Ma, se possibile, carogna ancor peggio di prima, poiché incominciò a tormentare l’anello debole della catena familiare, ovvero la bella Sabina. Niente di torbido, per carità, che anche quel poco di buono non arrivava a concepire certe turpitudini, ma la ragazza fu trattata ancora di più come una serva dal padre, tanto che cominciò ad accettare sovente piccoli lavori da fare fuori di casa, giusto per star lontana dal bisbetico semi-domato.

E fu così che incrociò la strada del giovane Ercole.

 

Ercole, il cui cognome nessuno si è mai curato di ricordare, era figlio di Cosimo e Giuseppina, emigranti provenienti dalla Calabria e trasferitisi al nord subito dopo la fine della guerra per sfuggire ad una famelica povertà. Dopo anni di duro lavoro e sacrifici, lei domestica a ore e lavandaia, lui bracciante nei campi e abile artigiano (sapeva riparare tutto ciò che era fatto di legno e metallo, da un comodino a un macinacaffè) erano assurti ad un livello di dignitosa modestia; nel frattempo crescevano il loro unico figlio. Questi tenne fede, da giovanotto, al nome assegnatogli dai genitori: forte e bello, aveva ereditato dalla famiglia l’indole operosa e la voglia di riscatto. All’età di ventun’anni, finito il servizio militare, fece domanda nel locale Consorzio delle Acque Irrigue, e – grazie anche ai buoni uffici del parroco, che ne lodò il buon carattere e l’onestà – fu assunto in quell’ente con la qualifica di chiusino, ovvero guardiano e manutentore delle chiuse, delle rogge e dei fontanili che regolavano l’intricato sistema d’irrigazione che forniva acqua a tutta quella zona della pianura. Posto assai ambito, si lavorava all’aperto sotto il cielo di Dio, nessun capo o caporale a fiatarti sul collo e paga più che discreta; ti fornivano persino di una fiammante bicicletta d’ordinanza, robusta e veloce, adatta ad andar per sentieri quanto sulle strade lastricate. Fu proprio durante una delle sue escursioni per controllare il flusso delle acque nel rugiòn, il canalone principale, che avvenne l’incontro fatidico con la Sabina. Intendiamoci, i due ragazzi si conoscevano già, almeno di vista, abitando entrambi in un paese che non contava più di mille e cinquecento anime nel suo periodo di massima espansione. Erano stati, da bambini, brevemente compagni di scuola (brevemente per scarsa frequentazione di entrambi); da grandi si vedevano – e si occhieggiavano, detto col senno di poi – tra i banchi della chiesa durante la messa domenicale.

 

Era un giorno di fine Agosto o primi di Settembre, i denti metallici del machinòn (la mietitrebbia grande: in quegli anni l’agricoltura si andava via via meccanizzando, almeno nel settentrione) avevano appena finito di rasare e pettinare i campi di mèliga; Sabina si era recata in un campo fresco di trebbiata per la ràpola, la spigolatura, ovvero la raccolta manuale delle spighe sfuggite a lame e cingoli del mostro meccanico. Rapolare era un’occupazione tradizionalmente riservata a donne e ragazzini, che poi erano altrettanto tradizionalmente in diritto di portarsi a casa quanto raccolto, anche se il campo non era il loro. Le pannocchie venivano messe a seccare nelle aie e poi sgranate, i chicchi di mais asciutti e rossicci portati al mulino per ricavarne polenta, mentre i tùtoli venivano utilizzati per innescare e ravvivare il fuoco nelle stufe e nelle cucine a legna: la spigolatura diventava così un’occasione di svago ma anche di aiuto al sostentamento. I siùr, i padroni dei campi, lasciavano magnanimamente fare.

I due ragazzi si incontrarono all’ora di pranzo, entrambi avevano scelto la fresca ombra dello stesso pioppeto per far merenda con quello che si erano portati da casa. Si riconobbero e salutarono, per poi cominciare timidamente a fare conversazione, mentre mangiavano; ora di lasciarsi per tornare ognuno al proprio lavoro il ghiaccio era ormai rotto. Da quel giorno gli incontri furono sempre più frequenti, le conversazioni più lunghe, le risate di Sabina più argentine; fino a quando un caldo pomeriggio Ercole audacemente provocò e Sabina maliziosamente rispose, e finirono per scambiarsi umori e sapori, nascosti in un canneto sulle rive del canale, con le rane a fare da romantico concerto. Diventarono da allora quasi inseparabili.

Ma questa loro inaspettata felicità non durò a lungo.

 

- - continua

 

 

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