L’avvocato Arcuri spinse la carrozzina lungo la rampa che saliva all’ingresso principale.

“Villa Sorriso”, pensò Antonio guardando l’insegna, “chissà se sorridono sinceramente i vecchi parcheggiati in quest’ospizio di lusso”.

La sedia a rotelle oscillò leggermente.

“Forse ha ragione Loredana, è tempo che mi dia una calmata”.

Le porte scorrevoli si aprirono di fronte a lui.

“Una sega!”, imprecò tra sé e sé mentre i giri delle ruote assecondavano il suo dialogo interiore.

“Sarà stata un’idea sua o di quel bamboccio del suo compagno? Sarà anche un avvocato, ma è un buono a nulla. Non fuma, non beve, o meglio s’ingozza con i suoi centrifugati di carota o di frutta. Non li ha i denti? Non è capace di masticare come fanno tutti i cristiani? Sono sicuro che è stato lui a convincerla. È un subdolo, non dice mai apertamente come la pensa. D’altra parte che cosa ci si può aspettare da un avvocato?”

L’uomo vestito d’un elegante completo grigio parcheggiò la carrozzina nella hall e si diresse al banco dell’accettazione per annunciare che lui e il suo accompagnatore ciclomunito erano attesi dalla Direttrice.

“Scuse! Sono solo scuse! Sto cercando di giustificare mia figlia. La verità è che non voglio ammettere a me stesso che lei è della stessa pasta del suo bellimbusto. E poi, questa pantomima della sedia a rotelle! Sono ancora capace di muovermi sulle mie gambe. Il problema è che nessuno è disposto ad adeguarsi ai miei ritmi”.

L’infermiera-segretaria uscì dal suo bancone e chiamò l’ascensore che avrebbe portato lui e il suo guardiano-avvocato al terzo piano. La ragazza si sdilinquì in effusioni sdolcinate verso il Signor Galimberti che, stoico, non rispose al suo sorriso artificiale. 

“Sì, sono solo scuse” continuò a ruminare nell’ascensore, “sto cercando un alibi alla mia debolezza. Non sono meglio di Arcuri: anch’io non sono stato capace di oppormi. E scambio la mia vigliaccheria per amore paterno. Che poi non ho ancora capito se comanda lei o lui”.

Nell’ascensore l’avvocato si strinse nell’angolo di sinistra, proprio dietro la sua spalla. In quella posizione, i due non potevano guardarsi, ma il Signor Galimberti sentiva che i suoi occhi e quelli dell’avvocato fissavano lo stesso punto sulla porta scorrevole, un lieve infossamento del metallo forse dovuto a un urto passato.

“Non hanno immaginazione quei due. Sono proprio uguali. Immaginare è un modo per vivere in anticipo. Chi pensa alla propria morte prima di morire non è capace di uccidere. E questo è vero anche per la vita. Tutti le intenzioni immaginate, tutti i tentativi falliti sul nascere rimangono nel limbo del silenzio come se la vita continuasse come prima. No, non è così! Le fantasticherie sono vite parallele anche se la realtà nega loro il diritto di cittadinanza. Pragmatici: così si definiscono. Ma quei due vivono come la maggior parte della gente, convinti che esista una sola dimensione, quella che si afferma prepotente con il suo troppo pieno di cose. Non sono capaci di sfumature. Che spreco!”

«Eccoci arrivati, papà» esclamò bonario Arcuri riprendendo la guida della seggiola mobile.

“Papà? Io non sono tuo padre! E tu sei un cretino che si fa comandare a bacchetta da quel carabiniere di mia figlia”. Lo pensò soltanto, ma dallo sguardo che ottenne in risposta si chiese se l’avesse pensato troppo forte.

Le gambe e le ruote percorsero ancora pochi metri lungo il corridoio verso l’ufficio della Direttrice.

“L’ho presa la penna?” si chiese il Signor Galimberti e si tastò il torace. La sua pelle percepì una sensazione d’umidità. Scostò il lembo sinistro della giacca e osservò lo schiudersi di una corolla vagamente circolare sul tessuto satinato della fodera. La camicia bianca ricalcava la stessa circonferenza, ma con delle ramificazioni caotiche, simili a disegni frattali sviluppatisi dal corpo principale, o come gli arzigogoli di un ragno ubriaco.

“Non si vedrà”, si disse, quasi compiaciuto d’essere segretamente maculato, “anche certi gatti hanno una macchia nascosta sul palato o sul ventre. Come Bulgakov, prenderò appunti sui polsini e userò il resto della camicia come carta assorbente”.

«Oh, finalmente abbiamo qui il nostro ometto!» 

La Dottoressa Milone si alzò per accogliere il futuro ospite e sfoderò un sorriso a trentadue denti. Al Signor Galimberti parvero sessantaquattro, quelli di un coccodrillo.

“Chi è questa befana? Anche lei ha un sorriso finto. Dev’essere il marchio di fabbrica della Villa”.

La figlia e il suo forense compagno si accomodarono ai lati della carrozzina. La Direttrice prese posto dietro la scrivania e, dopo i convenevoli del caso, incominciò a leggere l’informativa che il ricoverando avrebbe dovuto firmare.

«Allora è tutto chiaro? È deciso?»

L’ultima domanda strappò una smorfia di disappunto alla Signorina Loredana.

La Dottoressa prese una penna a sfera e la porse al candidato cliente.

«La ringrazio, ma ho la mia stilografica. Sa, me la regalò mio padre quando avevo otto anni. E poi non mi piacciono le biro moderne. Scrivono troppo fino, sembrano le tracce lasciate dalle zampette delle effimere. Conosce le effimere?»

I tre convitati sorrisero all’unisono come degli efemerotteri. 

 

Il Signor Galimberti infilò la mano nella tasca interna della giacca e prese la stilografica tra il pollice e l’indice con lentezza esasperante.

“Una volta aperta, mi macchierò le dita. È fatale”.

Il presagio annunciato dall’ematoma sulla camicia non poté che avverarsi. Tolse il cappuccio e un fiotto viscoso si spanse sulla scrivania. 

«Se devo firmare, che sia almeno con un segno spesso, il segno di un uomo» sentenziò solenne.

Posò il cappuccio, prese la penna e, sotto lo sguardo esterrefatto degli astanti, la strofinò sulla parte ancora immacolata della camicia. Tuttavia le dita rimasero appiccicose.

Con noncuranza il Signor Galimberti si avvicinò il foglio e lo macchiò con diverse impronte digitali grasse e sbavate.

Nell’atto di apporre la sua firma, l’agognato consenso che informava gli astanti della sua collera e al tempo stesso della sua resa, il pennino fu colto da un’inarrestabile emorragia e il sangue nero inondò il formulario.

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