Quella sera la città era avvolta da una cortina di nebbia spessa, densa e così umida che, passando attraverso i vestiti, inumidiva le ossa. La classica nebbia in Val Padana. Il tizio, lievemente dimesso, stava ciondolando distrattamente e senza meta tra un bar e l'altro quando, ad un tratto, si rese conto di essere arrivato fin quasi sotto casa sua. 

Trovato un telefono pubblico, la chiamò: «Ciao, sono io. Come va? È da un bel po' che non ci si vede. Che fai stasera? Ci vediamo?»

La voce femminile dall'altra parte della cornetta lo assordò con un «Ma ciao, che piacere sentirti!!! Io bene bene, e tu? Sì, sì, saranno mesi che non ti fai vedere! Stasera nulla, sono a casa che leggo... Volentieri, ti aspetto! Hai fame? Porta un paio di bottiglie di vino... Ah, il vino, quando arrivi, fa’ in modo che sia ancora dentro le bottiglie, non dentro il tuo stomaco.»

Risero, lei divertita, lui lievemente imbarazzato. Infine lei riattaccò. Il tizio lievemente dimesso rimase qualche altro istante ancòra con il ricevitore in mano, quasi in attesa che, da un momento all’altro lei rialzasse la cornetta e ricominciasse a parlare, un po’ come nella scena nascosta dopo i titoli di coda di un film. 

Poi riappese e corse a prendere due bottiglie di rosé fermo, quello che piaceva a lei, e un quarto d'ora dopo stava suonando al suo citofono. «Sali» gli rispose.

Mentre saliva con l'ascensore pensò a lei, la sua più vecchia amica, l'unica che, nonostante tutto, non gli avesse ancòra voltato le spalle – «Ma se continui così, prima o poi lo farò!» era solita dirgli quando esagerava con l'alcool. Quindi, pressoché tutte le volte che si vedevano – l'unica che gli volesse bene. Ed una delle poche con le quali non fosse mai andato a letto.

La porta era socchiusa. Entrò.

Si tolse il soprabito umido, si levò le scarpe sporche e non appena ebbe varcato la soglia del suo piccolo, accogliente bilocale, venne avvolto da un suo abbraccio e dall'aroma del pane abbrustolito che pervadeva ogni angolo della stanza. 

Il suo sorriso lo colpì alla bocca dello stomaco, mandandolo al tappeto. Si perse per un istante tra le linee naso-labiali che le circoscrivevano le labbra, disegnando una dolce, sensuale V sul suo viso.

Dopo avergli preso le bottiglie di vino di mano sparì nell'angolo cottura, dietro una tendina a perline di plastica ocra. «Se mi avessi avvertito prima sarei potuta andare a comprare qualcosa, ma così, su due piedi, non sono riuscita a fare molto» disse scostando la tendina e porgendogli uno dei due bicchieri di vino che teneva in mano. Sorrideva.

«Dal profumo, direi che quel che hai fatto andrà benissimo» le rispose prima di ingollare un generoso sorso di vino freddo e lievemente fruttato.

«Cerasuolo, il mio preferito. Te ne sei ricordato» disse lei dopo averne assaporato un sorso. «Ricordi? Eravamo a Teramo, in quell’osteria vicino a, come si chiamava...» 

«La torre bruciata» rispose lui.

«Esatto, la torre bruciata, bravò. Quanti anni sono passati...» Nella realtà, una dozzina, per il tizio lievemente dimesso almeno un centinaio.

Ma ogni volta che loro due si incontravano, non importava quanto tempo fosse passato dall’ultima volta, le parole tra loro scorrevano libere, come se non fossero mai state interrotte: avevano quasi terminato la prima bottiglia, tra chiacchiere e risate, quando uscì nuovamente dal cucinotto con in mano un enorme vassoio colmo di fette di pane abbrustolito con, accanto, un piattino con un panetto di burro e una confezione da mezzo chilo di filetti di acciughe in una latta. 

«Come mi conosci tu, non mi conosce nessuno» le disse facendola arrossire. «Se non ti amassi così tanto, ti sposerei.» 

Lei rise scuotendo leggermente la testa, e la sua risata riempì tutta la stanza. Aveva sempre amato il suono delle sue risa, così avvolgenti ed adulte e, al contempo, così ingenuamente infantili.

Poi prese una fetta di pane perfettamente tostato, la imburrò con uno spesso strato di burro che subito cominciò a sciogliersi, la completò con due filetti d'acciuga impregnati d'olio d'oliva e gliela porse.

Il tizio lievemente dimesso la trangugiò poco elegantemente in due soli bocconi, mentre l'olio gli colava tra le dita, sulle mani, lungo i polsi e dentro i polsini logori della camicia e il burro gli ungeva le labbra, la barba e i polpastrelli. Lei rise nuovamente, materna, e gli pulì la bocca con un tovagliolo di carta.

Dopo un paio d'ore l'enorme vassoio di crostini, burro ed acciughe era stato pressoché completamente spazzolato, così come la seconda bottiglia di Cerasuolo. Chiacchierarono fino a tarda notte, ricordando ricordi come vecchi amici, ridendo risate come adolescenti innamorati e parlando parole di letteratura – lei era una valdughiana convinta, lui un licenzioso bukowskiano – finché non venne il momento di salutarsi.

«Resti?» chiese lei con la speranza negli occhi ed un leggero rossore sulle guance, forse causato dal vino. Forse. 

Lui la guardò in silenzio, le rispose con un impercettibile segno di diniego con il capo e le sfiorò le labbra con un bacio lieve. Percependone il dolce profumo di latte sulla pelle. «Temo sia meglio di no, sai quanto sia bravo a rovinare sempre tutto» rispose dopo qualche istante.

«Ok, ma non farmi aspettare altri due o tre mesi, o magari un anno, prima di rifarti vivo» disse con gli occhi velati di tristezza. 

Lui le promise che non sarebbe successo, ma sia lui che lei sapevano che le promesse non erano mai state il suo forte.

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