«Io da bambina ho avuto un amico immaginario» mi raccontò in uno di quei momenti di intimità in cui siamo disposti ad aprire il baule dei nostri segreti. «Era un amico proprio speciale, capace di rendermi felice. Condividevo con lui le emozioni e le tensioni di bambina un po’ trascurata e anche le preoccupazioni, quelle che non riuscivo a descrivere con le parole ma che mi facevano star male, che mi tenevo dentro perché gli adulti, quando c’erano, non avevano la capacità di capirle. Con lui parlavo tanto perché mi sapeva ascoltare, non con sufficienza, così tanto per assecondarmi, ma perché proprio mi capiva. E non mi giudicava: gli adulti si aspettavano sempre qualcosa di diverso da me, che fossi una bambina così, che mi vestissi cosà, che mi comportassi in un certo modo, ma a lui non importava un bel niente, lui mi accettava così com’ero e stavamo bene insieme».
Avevo voglia di dirle che quasi tutti i bambini ne hanno uno, che costruiscono con fantasia e originalità e che collocano in una dimensione parallela dove vigono regole stabilite da loro e dove gli adulti non hanno accesso, ma non me la sentii di banalizzare quel dolce ricordo.
«Era sempre disponibile, giorno e notte» continuò «era leale, non faceva mai la spia, ed era fedele, non mi sono mai sentita tradita. Faceva qualsiasi cosa per me e si accollava volentieri il compito di effettuare alcune imprese eroiche e pericolose che io avrei avuto difficoltà a fare».
«Ma eri consapevole che si trattasse di un parto della tua fantasia?».
«Senza dubbio, ma non si trattava solanto di un gioco, io avevo bisogno di lui, soprattutto in certi momenti: gli attribuivo desideri, intenzioni, capricci, bugie, paure. Gli scaricavo addosso colpe e responsabilità. E, come facevano gli adulti con me, lo punivo o lo lodavo, lo picchiavo e lo abbracciavo. Con lui dicevo cose o rivelavo stati d’animo che altrimenti avrei fatto fatica a esprimere. Per evitare incomprensioni con i miei genitori, lo tenevo segreto, tanto non mi avrebbero capita, si sarebbero preoccupati e forse avrebbero pensato alla necessità di un supporto psicologico, proprio loro che si innamoravano delle star del cinema e le sognavano di notte».
«Peccato che a un certo punto scompare».
«Eh, già. L’amico immaginario esiste fino a quando chi lo ha creato crede in lui. Il mio è esistito per diversi anni, poi l’ho sacrificato come un agnello sull’altare della crescita. Il suo posto fu preso da un mio compagno di scuola che si faceva rispettare da tutti e che mi faceva sentire protetta. E poi era anche bello» ammise. «E tu ce l’hai avuto un amico immaginario?» mi chiese.
Non ci pensai molto per rispondere. «Io appartengo a una categoria di ex bambini che rimane fedele all’amico immaginario» dissi. «Vedi, tutti quelli che scrivono, creando personaggi, continuano di fatto a inventare amici immaginari per accontentare il bambino che è rimasto dentro di loro. Questo non so se significhi che uno scrittore ha una componente autistica, che ha più un dentro che un fuori. Ma è così. Anche io creo personaggi, ma uno in particolare è il mio vero amico immaginario. Si chiama Stefano ed è presente in tutti i miei romanzi. È un architetto, un notaio, uno studente di colore. È stato persino il guardiano di un faro. È tanto indipendente che a volte mi prende la mano e fa delle cose che io non ho nemmeno pensato. Le trovo scritte e le accetto. Mi piace questo modo di lavorare: io invento il personaggio e lui mi suggerisce cosa fargli fare o dire. Succede con tutti i personaggi, ma con Stefano c’è un rapporto particolare. È come se io gli dessi la vita e lui mi insegnasse a vivere».