Mi sono guardato intorno. Non c’è nessuno sotto i settant’anni.
Solo io porto il vessillo della giovinezza, prossimo ai 56. Spingono carelli e deambulatori. Alcuni sono seduti sulle carrozzine. Un uomo cammina a fatica appoggiato al trespolo della flebo che porta nel braccio.
Da un po' di tempo questi sono i miei orizzonti. Vanno da un muro bianco a una finestra sul parco; dall’ufficio dove chiedere informazioni allo stanzino del Medico pieno di carte da sistemare perché hanno tagliato sul personale paramedico e i medici debbono fare tutto da soli: accogliere i pazienti, srotolare la carta sulle lettighe, registrare le entrate, aggiornare le cartelle.
E di questo si lamentano, è chiaro! Quindi sembra quasi logico che tra una visita e l’altra si prendano delle pause di un quarto d’ora venti minuti, anche solo per gustarsi un caffè o fumare una sigaretta sul terrazzino del piano.
Intanto però siamo lì da un’ora.

Mio padre “Deve andare al cesso!” e per fortuna ancora se la gestisce da solo. Poi, uscito dal “cesso” si lamenta perché lo stomaco reclama e quindi tira fuori dal borsello un pacchetto di crackers aperti un paio di giorni prima che ormai sanno di mogano.
Ne mastica uno come se mangiasse del mastice. Con lo stesso entusiasmo.
Io mi alzo per chiedere. Per carità, hanno rinnovato tutto. C’è un bel “Desk” (così si chiama) dove sta una bella infermierotta in carne e occhiali scuri disponibile e gentile. Ma nel suo sguardo incredulo di fronte alle tue rimostranze per una attesa che ormai ha superato l’ora, io credo che ci sia un poco di sorpresa e molta presa in giro. Per cui uno giustamente si incazza di più.
<< Dovevamo entrare alle 10! Sono le 11.30! >>
<< Capisco! >> risponde e ti guarda da sotto in su, attraverso gli occhiali alla Steve Wonder.
<< Ma non si può accelerare? >>, sai bene che queste richieste sono del tutto inutili e gettate come sabbia sulla spiaggia, ma le provi lo stesso, perché mentre formulavi la frase per lo meno sono passati altri quindici secondi.
<< È la Dottoressa che appena finisce chiama il successivo! Io qui sono l’ultima ruota del carro! >>
L’ultima ruota del carro è la definizione che si pronuncia quando in Italia ci si vuole togliere da ogni imbarazzo. Tu, quando non vuoi rotture di palle, devi soltanto pronunciare la fatidica frase:
"Sa, io qui non conto. Io sono l’ultima ruota del carro!" e di fronte a quell'affermazione uno alza le mani e pensa, al limite, "Beh, povero! Per fare una affermazione del genere sta veramente messo male. È l’ultima ruota del carro"
Però qui i più smaliziati hanno una contromossa vincente. In genere si cita il “conoscente”. Il conoscente si tiene in serbo per i momenti più tragici: quando non si hanno più carte da giocare e si è oltrepassata la soglia di ogni sopportazione.
La tento.
<< Il Primario, il Dottor Geranzoni, ha consigliato di non far affaticare mio padre. Per questo chiedevo>>. Assumo un'espressione da Santino dei Salesiani. Ma ho di fronte evidentemente un'infermiera ferrata. Ne sa di psicologia, ha esperienza. È un osso duro per le nostre poche risorse. Fa il suo lavoro con esattezza, picchia duro ma con grazia.
<< Si guardi intorno >>, e fa un ampio gesto come Modugno alla fine di “Volare”.
<< Mi dica se c’è secondo lei un solo paziente che si può affaticare, qui! >>, e poi, la grande concessione.
<< Ora vado a vedere a che punto è! >>
Si alza e ai nostri occhi diventa più bella di Marilyn, più Santa di Madre Teresa, più saggia di Osho.
L’ultima ruota del carro: quella categoria umana che può, di tanto in tanto, assurgere a baluardo dell'umanità, avere il suo minuto di gloria anche al di fuori di Facebook.
Tutti, devotamente, la guardiamo incedere con le zampette per il corridoio.
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