Giannino era contento da morire quando gli dissero che sarebbe andato dalla zia Angela. Mamma e papà si erano decisi a fare quel sospirato viaggetto in Costa Azzurra, che sarebbe durato un paio di settimane. Per custodire il Killer si erano rivolti ad Angela, cugina prima di mamma, donna minuta ma volitiva, mite nell’apparenza ma ferrea nelle decisioni. Temporaneamente sola e pertanto ottima per tenere a bada il Delinquente, provare a fargli fare qualche compito, insegnarli un po’ di educazione. Oltretutto cuoca raffinata, con gran gusto estetico per i piatti da portare in tavola.

La casa della zia Angela era a un dipresso dal mare e lei contava di stancare la Belva con lunghi bagni mattutini, così da potersi godere un paio d’ore di pace nel pomeriggio, durante le quali Attila avrebbe dormito. Mai previsioni furono più smentite dagli avvenimenti.

Restava comunque il fatto, molto tranquillizzante, che per qualsiasi emergenza Paola, la sorella sposata di Giannino, era presente in città, e a lei Angela avrebbe potuto rivolgersi per ogni bisogna o, al limite, per la riconsegna del “pacco” alla legittima famiglia, cosicché papà e mamma avrebbero potuto terminare tranquillamente il loro giro.

Paola non aveva preso subito con sé il Ciclone perché il suo sposo, dopo l’incendio della camera da letto, le aveva imposto di non farlo mai più entrare in casa.

Giannino dal canto suo non stava più nella pelle: sapeva che avrebbe fatto i bagni in uno splendido mare, che avrebbe mangiato benissimo e che avrebbe avuto la libertà di rovistare in ogni angolo di quella che aveva sempre immaginato essere una casa affascinante.

Venne il gran giorno: Giannino preparò con grande cura la sua valigetta, non quella dei vestiti, a cui aveva già pensato mamma, ma quella con gli utensili necessari ai suoi giochi: il coltellino americano con quella pinza-tenaglia che tutto tagliava, di gran lunga migliore di quelli svizzeri, le forbicine, la pinza con i denti di topo, tutta roba “presa a prestito” dall’ambulatorio del babbo, una domenica pomeriggio.

A Giannino la zia piaceva: entrambi erano naturalmente ironici, anche se lui aveva solo dodici anni, e fra loro era una continua esplosione di battute e di risate. La vacanza incominciava davvero con i giusti presupposti.

Quella sera lo Scapestrato mangiò svogliato, anche se la zia gli aveva fatto una buonissima quiche al salmone, perché aveva la testa da un’altra parte. Aveva adocchiato uno scatolone, non abbastanza ben nascosto, che su di un fianco aveva un’immagine molto allettante, una specie di fruttiera a tre piani, marrone, con scritto sopra “fontana di cioccolatte”. Neanche nei suoi sogni più sfrenati il Terremoto si era mai immaginato che esistesse una fontana, oggetto stupido e inutile, dalla quale potesse uscire il cioccolatte. Tanto disse e tanto fece che riuscì a convincere la sfortunata zia: la prese semplicemente per stanchezza. Lo Scriteriato in questo era un grande maestro: riusciva a mettere a perdere gli umani intorno a lui con un tale impegno che nessuno gli poteva resistere più di dieci minuti.

In verità anche la zia aveva una certa curiosità, perché quell’aggeggio, vinto a una fiera di beneficenza, non aveva ancora avuto l’occasione di usarlo. E mal gliene incolse. Decisero che lei sarebbe andata a comperare il cioccolatte (questo sì svizzero!) e lui avrebbe letto con attenzione le istruzioni.

Anche questo si dimostrò errore concettuale gravido di conseguenze nefaste.

Angela comprò un kilo di cioccolatte, perché se si fa si deve fare bene.

Il Mostro la rassicurò sulla grande semplicità di funzionamento dell’apparecchio, desunta dal libriccino di istruzioni, redatto in otto lingue e la zia, incautamente, non domandò all’Assassino quale lingua avesse letto. Costui le disse che per sciogliere il cioccolatte sarebbe bastato aggiungere un po’ di Calvados, e Angela, presa dall’entusiasmo, non si domandò che cosa il Calvados avesse a che fare con tutto questo.

Il Mariuolo le spiegò, con tono molto dottorale, che mentre lui metteva in funzione l’arnese lei avrebbe dovuto pelare al vivo arance e mandarini, e fare cubetti di un centimetro di lato con mele, pere e ananas, e infilzare tutta la frutta su lunghi stecchi, così poi da avere in mano spiedini pronti da inzuppare nel cioccolatte, solidificato appena un attimo dopo averli tirati su.

Era davvero in gamba il suo Giannino, pensò con una punta di orgoglio Angela, e sapeva il fatto suo. Lo lasciò armeggiare in sala e lei si ritirò in cucina a pelare la frutta.

Dopo un quarto d’ora entrò in sala reggendo un magnifico vassoio carico di frutta: ebbe come l’impressione che qualcosa non fosse al suo posto ma non riuscì a capire subito che cosa fosse.

Il Fetente guardava rapito la fontana, che, ben lungi dall’emettere cioccolatte emetteva soltanto un sordo rumore, come di pentolone in ebollizione. Il cioccolatte sciolto avrebbe dovuto, volendolo, risalire lungo una vite senza fine per uscirne in cima, e colare in marroni rivoletti che dovevano fare tre salti come le Marmore.

Questo nelle intenzioni, nelle istruzioni e nelle aspettative: la realtà fu di molto più tragica.

La macchina infernale sputava, con sempre maggiore violenza, catarroni di cioccolatte in tutte le direzioni, soffitto compreso, per cui in pochi attimi poltrone, tappeti, quadri e muri, vennero spruzzati da questa diarrea gocciolosa. Angela ebbe un attimo di smarrimento, Giannino di estasi, in accordo con la sua natura maligna.

Con un urlo lacerante la zia si avventò sulla fontana e strappò il filo elettrico dal muro, ma non così velocemente da non ricoprirsi a sua volta di cioccolatte al Calvados.

Adesso l’Abominevole batteva le mani, felice.

La valigia dei vestiti non venne neanche aperta.

Angela finì di pulire il mercoldì mattina, perché si era di sabato. Resistette al desiderio di buttare la fontana nella spazzatura ma solo perché non era ancora stata inventata la raccolta differenziata “oggetti diabolici”.

 

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