Una ruotina di bici procede a zig-zag, diretta verso il mostruoso retro del trattore di Nonno, parcheggiato al confine tra il cortile e i campi dietro casa.

"Vai piano Nanì, vai piano! Frena che se no ti fai male!"

Dietro di me sento Nonna. Di lei mi fido. Mi attacco ai freni, ora la bici è ingovernabile, mi aggrappo ancora più forte al manubrio e chiudo gli occhi, aspettando l'inevitabile schianto sul trattore. 

È proprio in quel momento che sento quelle braccia fortissime di chi ha passato una vita intera nei campi afferrarmi e staccarmi dalla bici.

Nonna mi ha acchiappato.

Nonna mi ha salvato.

La bici è stesa sotto il trattore. Io sono in piedi di fronte a Nonna. L'ispezione sul mio corpicino dura pochi istanti, il tempo necessario a cancellare ogni traccia di preoccupazione dal suo volto.

"Il mio Nanì” e quella manona che mi scompiglia i riccioli.

"Hai visto Nonna? Sono stato bravo, non mi sono fatto male!”

Chissà perché gli occhi della mente ripescano questa scena, da un mondo che non c'è più, con cose e persone che non ci sono più. Non ci sono più i campi dietro casa, Nonno su quel trattore rumorosissimo, Nonna con quella sua andatura da bersagliera in aperto contrasto con uno sguardo dolce e un sorriso mite e semplice.

Sospiro.

Oggi la mia realtà è un mare di nebbia fitta, odiosa, impenetrabile, su questa autostrada che mi porta nella sede di una multinazionale nostra Cliente. 

Sono uno che per lavoro si fa tanti chilometri, le lunghe telefonate con colleghi e fornitori e qualche intermezzo musicale alla radio come compagni di viaggio.

Il mio mondo oggi va di cento metri in cento metri, quello che mi permette di vedere questa nebbia. Vedo, più che altro percepisco, un SUV che mi supera e sparisce davanti a me in pochi secondi.

"Incosciente” penso. 

Non saprei dire cosa c'è…questa solitudine che la nebbia accentua mi mette un pochino a disagio. Non posso nemmeno fare l'innocente e goliardico “gioco delle facce”. Le facce sono quelle di chi supero o di chi mi supera. Robe tipo "Bella ragazza, scommetto che il suo capo la chiama spesso nel suo ufficio anche se non ha realmente bisogno di lei”, “Che faccia scura, ieri sera devi avere litigato con tua moglie”, "Ragazzo giovane, neo-laureato allo sbaraglio, chissà quanti sogni ha". No, oggi il gioco è sospeso: ma chi le vede, le facce?

Vorrei chiamare il mio collega, il programmatore, avevo un paio di punti in sospeso per oggi. Con un occhio armeggio sui comandi al volante, con l'altro non perdo di vista la (poca) strada (che vedo davanti a me). No, troppo presto, non è ancora in ufficio. Rinuncio alla telefonata. Il disagio sale. Non so, oggi sento che qualcosa è fuori posto. Io stesso, forse, mi sento fuori posto.

Mi gratto la nuca. Vado sui comandi della radio. Gracchiare informe di note e parole.

“Prestare attenzione…grave…uscita obbligatoria a …” 

La mente lavora frenetica "Ci fanno uscire, ci deve essere stato un incidente più avanti, ma io come faccio? Beh il navigatore ricalcolerà. Spero di non fare tardi".

Mi gratto di nuovo la nuca, sbuffo, mi scopro a ridacchiare al pensiero “Sarà quel SUV che si credeva invincibile e si è schiantato”, per poi ricacciare via come inaccettabili il pensiero e la risatina. Mi sto innervosendo, neanche una canzoncina a rilassarmi, la radio pare incapace di ricevere.

Vedo camion e macchine lampeggiare furiosamente nella corsia sud, è lì che esplodo in un “Bravi, ora provate il clacson” completamente senza senso, pronunciato da un abitacolo che mi soffoca, fin quasi a stritolarmi. 

"Nanì…" sì come no?

"Nanì…” mi giro di scatto verso i sedili posteriori, dove, ovviamente, non c'è nessuno, non ci può essere nessuno.

"Nanì…vai piano…vai piano” eppure è…

"Vai piano, frena che se no ti fai male!” Di lei mi fido.

Inizio a frenare alla cieca.

Nel mio campo visivo entra un mostruoso groviglio di lamiere di auto, tir, furgoncini. 

Stringo fortissimo il volante, chiudo gli occhi in attesa di una botta che non arriva, sento quelle due braccia forti che mi inchiodano a pochi centimetri dal parabrezza e mi rimettono in posizione sul sedile. 

Sono fermo a pochi metri da quel mostro deforme, attendo, sempre ad occhi chiusi, un tamponamento che non arriva mai, poi li riapro, sgancio la cintura, apro la portiera e corro via attraversando l'autostrada come un folle che non percepisce più nulla, tanto meno il pericolo di essere investito. Esco dal cubo della nebbia, sono su una spianata di erba gelida, dietro di me sento stridere di freni e schianti. Mi fermo. Gli schianti terminano, sento sirene di ambulanze, radio che gracchiano, lamenti, pianti, voci di soccorritori.

Mi giro. Nonna è lì davanti a me. L'ispezione sul mio corpo dura pochi istanti, in quel tempo il suo viso si rasserena.

"Il mio Nanì”.

"Hai visto Nonna? Sono stato bravo, non mi sono fatto male”.

Poi riparte con quella sua andatura da bersagliera, fino a quando viene inghiottita dal cubo di nebbia in lontananza.

Non sono riuscito a trattenerla.

Fisso il punto in cui è sparita.

"Signore, tutto bene?” è un'infermiera accanto a me.

"Sì sì. Nonna mi ha acchiappato. Nonna mi ha salvato anche stavolta”.

"Venga con me, la porto dai colleghi per un controllo, si appoggi. Ha detto che era con qualcuno?”

Sorrido e mento, sapendo di mentire.

"No, ero da solo al volante”.

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