1.

“Ora basta! Prendo carta e penna e comincio a scrivere. Così non si può più andare avanti” – pensava Gaja, mentre scorreva i titoli del giornale.

Dopo l’ennesimo speciale sull’abbandono degli animali durante le ferie/festività – e ora stava per arrivare il Natale – sentiva che qualcosa andava fatto. E subito.

Mentre si accingeva a stilare l’elenco delle cose a cui si dovrebbe prestare attenzione prima di adottare un pet (tipo ricordarsi che se il cucciolo introduce generi alimentari nella sua rosea boccuccia baffuta, è inevitabile che prima o poi da qualche parte ne escano gli scarti), sentiva un grande fracasso provenire dall’appartamento a fianco, ovvero quello degli “Zulù”.

Da dieci minuti buoni il bambino continuava a urlare – quasi fosse un mantra – “Ti odio, sei una mamma cattiva. Ti odio. Ti O-D-I-O! Sei la mamma peggiore del mondo!”.

Se non altro aveva le idee chiare e buona padronanza dei superlativi assoluti. Ma che chiasso!

Gaja fece uno sforzo di concentrazione e iniziò il capitolo dei doveri annessi all’adozione, tipo curare l’animale nella buona e cattiva sorte, in salute e malattia. In fondo, l’adozione è quasi un matrimonio: ci si prende per amore, ma le responsabilità durano anche quando finisce l’infatuazione.

Era nel mezzo di queste riflessioni filosofiche quando si accorse, a un tratto, che regnava una calma sinistra e un silenzio sospetto.

Quando aveva smesso di urlare il bambino? Era uscito di casa in preda all’ira o i genitori – chiaramente ignoranti delle teorie di Alice Miller – gli avevano mollato una “pizza”?

Riluttante a farsi i fatti degli altri, sia per natura che per noblesse (che oblige!), Gaja si sporse dalla finestra della camera da letto per vedere nell’ampia e disordinatissima sala dei vicini.

Orrore! Mutande e calzini ovunque, cartine di merendine e bigodini sparsi per terra.

“Ma come siamo finiti?” – pensò la poverina – “Altro che cani e porci! Qui fanno entrare anche i tamarri!”

Con un agile balzo, Gaja saltò sul balcone e, guardando circospetta, spinse l’anta della porta a vetri per introdursi nell’appartamento vicino.

La situazione le apparse da subito ben peggiore, sia per disordine, che per olezzo. Ma la cosa che attirò la sua attenzione fu che, nonostante il silenzio tombale indicasse inequivocabilmente che non c’era nessuno nell’appartamento, le chiavi di casa erano ben visibili nella toppa della porta d’ingresso. “Ergo – ne dedusse Gaja – gli Zulù non sono qui, ma nemmeno possono essere usciti”. Per una frazione di secondo sperò che un grave virus li avesse annientati tutti e cinque, cane compreso, ma dovette constatare che in questo caso sarebbero rimasti almeno i corpi. Di autocombustione manco a parlarne, il suo sviluppatissimo olfatto ne avrebbe percepito subito i residui.

“Dunque, riflettiamo. Fino a Pochi minuti fa erano qua dentro, ma ora non ci sono. Non penso che siano usciti, primo perché le chiavi sono infilate nella serratura dall’interno, secondo perché avrei sentito i passi sulle scale o il rumore dell’ascensore (fa un fracasso quel coso là!). Ma allora, cosa può essere successo?”.

E compì un secondo giro di perlustrazione che, questa volta, diede frutto.

 

2.

In cucina, nella parte di pavimento che dall’angolo andava verso la porta-finestra del balcone, tra ciarpame di ogni tipo, s’intravedeva un buco.

Spostando alcuni cartoni della pizza e fogli di giornale, Gaja riuscì a mettere in luce l’intero diametro del pertugio: certo, non era abbastanza grande perché vi passasse un uomo, ma un cane, un bambino di 6/7 anni e una strega con l’appeal di una battona, uno alla volta, avrebbero potuto. Forse il padre e la figlia maggiore, gli unici all’apparenza un po’ decenti, non erano in casa prima.

Ad ogni buon conto, le cose stavano così: o erano intervenuti gli alieni e li avevano smaterializzati (e qui Gaja sorrise sotto i baffi), oppure erano passati da quel buco, Dio-solo-sa-perché, ed erano finiti da qualche parte!

Escludendo l’ipotesi di seguirli, Gaja cercò di rammentare cosa ci fosse sotto il vano cucina dei vicini, che usciva a sbalzo in facciata.

 

E in un attimo capì!

 

3.

Si precipitò fuori dall’appartamento, corse all’ultimo piano e chiamò l’ascensore.

Poi, mentre questo saliva, si lanciò alla velocità del tuono al piano terra e con agilità felina abbassò la leva dell’elettricità.

Fin qui tutto bene; ma ora, come fare ad aprire il vano ascensore, dove sicuramente quei tre imbecilli erano finiti?

 

Gaja odiava le situazioni in cui il suo non essere umana le intralciava l’iniziativa!

Rassegnata all’inevitabile, si mise a miagolare disperatamente, sicura che la sua umana del cuore l’avrebbe subito udita.

Infatti, in un lampo Chiara aprì la porta del loro appartamento e le fu accanto.

“Cosa succede, piccola?”, le chiese perplessa accarezzandole la schiena e la folta coda. Chiara sapeva bene che Gaja odiava l’ascensore, anzi, ne aveva un certo timore.

Intanto, tutto quel trambusto aveva ridestato uno dei tre noti Zulù – il cervello del clan – che, riavutosi dallo shock della caduta, cominciò a guaire e abbaiare disperatamente.

“Oddio! Il botolo-rompi-palle è finito nel vano ascensore!”, gridò Chiara, mentre cercava di forzarne la porta.

Col cellulare chiamò l’assistenza e si fece dare precise istruzioni:

La corrente era già staccata? Sì.

La cabina era a un piano alto? Sì.

Potevano aspettare il loro arrivo? Chiara e Gaja si guardarono negli occhi un attimo, prima di annuire all’unisono. “Fate pure con comodo”, fu il commento umano. “Non venite per nulla”, quello felino!

 

4.

Quattro ore, tanto trambusto e nessun ringraziamento dopo, Chiara, immersa in una vasca d’acqua tiepida e profumata, rifletteva sull’accaduto insieme a Gaja e alle altre codine della casa – Camilla, Kiky e Mina.

Primo. I tecnici della manutenzione erano davvero carini, soprattutto il brunetto con tutti quei muscoli e il sorriso d’angelo. Li avrebbe richiamati a breve con qualche pretesto, tanto di fantasia ne aveva da vendere. Quattro codine approvarono entusiaste.

Secondo. La gente non immagina quante cose si possano rinvenire in un vano ascensore! Oltre alle solite biglie, palline, fermacapelli, monete, caramelle, anelli e spille di bigiotteria, Gaja si era impadronita di un braccialettino di nota marca con deliziosi charms tintinnanti, che era già stato sistemato sotto il suo cuscino preferito, e un foulard di seta firmato Cavalli, sul quale avrebbero fatto “il pane” tutt’e quattro. Ma la cosa più curiosa, erano i 3 mazzi di chiavi di casa, evidentemente mai reclamati, che Chiara pensava le sarebbero potuti tornare utili.

Terzo. Quando, qualche giorno prima, i tecnici erano venuti per un intervento di manutenzione straordinaria sulla canna fumaria condominiale, che passa proprio accanto al vano ascensore e all’appartamento degli Zulù, e, nel tentativo di recuperare lo straccetto della vicina del terzo piano, avevano spaccato tutto, dovevano aver inavvertitamente lesionato la soletta del primo piano, proprio in corrispondenza della cucina degli Zulù. I quali, durante il tafferuglio della mattinata, avevano finito di spaccarla, facendo cadere di sotto il botolo rognoso, seguito dal moccioso frignante.

Più difficile, invece, era spiegarsi come la strega si fosse deliberatamente calata giù, visto lo scarso amore materno e il profondo attaccamento alle sue unghie finte. Probabilmente si era solo sporta per verificare lo stato delle cose, ma il peso del push-up l’aveva definitivamente sbilanciata.

“Comunque”, concluse Chiara serafica, “tutto è bene quel che finisce bene: la strega dovrà stare in ospedale per almeno una decina di giorni, tra intervento alla tibia e trazioni. Giorni di calma, pace e serenità!”

E, per celebrare il momento, fece volare in aria una nuvola di schiuma.

 

 

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