Aveva dodici anni Elisabetta quando, durante una lezione di equitazione, fu improvvisamente sbalzata dalla sua cavalcatura, battendo violentemente la testa. Stava allenandosi al salto agli ostacoli e, per qualche strano motivo, proprio mentre il cavallo stava saltando, lasciò una delle due redini e fu disarcionata e proiettata verso un lato del cavallo, andando a sbattere con la testa contro lo stesso ostacolo che avrebbe dovuto superare. La portammo subito in ospedale, dove i medici intervennero immediatamente per cercare di stabilizzarla. Le fecero una TAC cranica e per fortuna non si evidenziavano danni al cervello, ma i medici temevano un’amnesia retrograda, anche se bisognava aspettare il risveglio per saperne di più. Dopo qualche ora in terapia intensiva fu portata in reparto, dove finalmente si svegliò e anche se era un po’ stordita, riuscì a riconoscere sia me che sua madre. I medici dissero che grazie al casco aveva avuto salva la vita. Dopo cinque giorni di degenza, Elisabetta fu dimessa dall’ospedale e tornammo a casa, ma non sembrava più la stessa, rispondeva in maniera laconica a tutte le nostre domande e mostrava una certa apatia generale. All’improvviso però, senza che le chiedessimo nulla, cominciò a parlarci di strani ricordi che le passavano per la testa, farfugliando strane parole in una lingua sconosciuta. 

«Rumon Armenta», disse a mezza voce e con tono smozzicato.

«Cosa hai detto?», disse sua madre.

«Ricordo il rumon… il fiume. C’era anche mio padre.»

«Ma cosa stai dicendo, Elisabetta? Di quale fiume stai parlando?», dissi preoccupato.

«Prima di te avevo un altro apa… tanti anni fa, poi fu chiamato in guerra e da quel giorno non lo vidi più.»

Non sapevo cosa volesse dire apa e in che lingua stesse parlando, ma decidemmo di non farle altre domande e, per non stressarla troppo, la lasciammo riposare tranquilla. Mia moglie ed io prendemmo la decisione di farla visitare da uno psicologo, quei suoi discorsi sconnessi ci preoccupavano molto. Il dottore che la visitò, dopo aver parlato con lei per oltre un’ora riuscì a capire che la bambina aveva avuto una regressione della memoria e dichiarava di aver vissuto una vita precedente. Tuttavia il dottore non credeva che si trattasse realmente di una vita precedentemente vissuta, per lui erano solo fantasie partorite da un cervello scosso e bisognava attendere qualche mese per vederla tornare alla normalità. Un giorno però, mentre mi trovavo da solo con lei, le chiesi di raccontarmi tutto quello che si ricordava di questa sua vita passata. Mi rispose che i suoi ricordi non erano molto chiari, erano frammentati e senza un’organizzazione precisa, ma si ricordava bene di alcuni dettagli.

«Raccontameli se vuoi, ti ascolto», le dissi.

«In quel tempo molto antico mi chiamavo Velia e vivevo nella città di Velch con mio padre Elaxantre. Mia madre non l’ho mai conosciuta, morì subito dopo avermi partorita. Mio padre era un guerriero Rasna e ricordo che avevo dieci anni quando mi disse che sarebbe dovuto andare in guerra per combattere contro i Romani, e mi avrebbe lasciata con mia zia Larthia ad aspettarlo. Ricordo che  prima di partire mi portò sul fiume Armenta per passare un po’ di tempo insieme. Era una bella giornata d’estate, i merli fischiavano e l’acqua del fiume era bassa e invitante. Mio padre si tolse i calzari ed entrò a piedi nudi nel fiume, “vieni Velia, vieni a vedere com’è bella fresca”, mi disse. Mi tolsi i calzari ed entrai anch’io in quell’ acqua limpida, ma fredda come il ghiaccio. Insieme passeggiammo per un lungo tratto e parlammo di tante cose, quando guardandoci dietro ci accorgemmo che ci seguivano tante oche selvatiche che nuotavano in fila a farci compagnia. Quello stesso giorno mio padre tirò dal taschino una collana d’ambra, con uno scarabeo d’oro come pendente e me la regalò. Mi disse che era appartenuta alla mamma e avrei dovuto conservarla come un tesoro geloso, e indossarla solo quando sarei diventata grande. Il giorno dopo mio padre partì per la guerra. Qualche giorno dopo ci fu una grande battaglia su un lago di cui non ricordo il nome e il potente esercito dei guerrieri Rasna venne annientato dai Romani. Mio padre non tornò più e rimasi sola con mia zia Larthia. Ricordo anche che i Romani arrivarono a Velch marciando, con i loro lunghi scudi e gli elmi con le creste rosse, ma non ricordo più nulla di cosa sia accaduto dopo.»

Quella storia mi toccò profondamente, mi sembrava troppo dettagliata per essere tutta inventata, ma si sa, i ragazzi a volte hanno una fervida immaginazione. Un giorno navigando in internet cercai il fiume Armenta e fui sorpreso nello scoprire che era il nome Etrusco dell’attuale fiume Fiora; e Velch, la città di cui parlava Elisabetta, era l’antico nome della città di Vulci. Non sapevo proprio cosa pensare. Passarono tre mesi dall’incidente ed Elisabetta era diventata molto infelice, soprattutto perché nessuno credeva alla sua storia. Un giorno d’estate, mia moglie ed io le organizzammo una bella sorpresa: fittammo un furgone e ci recammo in gita sul fiume Fiora, quello che lei ricordava come fiume Armenta. Scendemmo dal furgone e mentre io ero già sulla riva del fiume a togliermi scarpe e calzini, chiesi a lei di fare lo stesso. «Elisabetta, questo è il fiume dei tuoi ricordi, vieni che l’acqua è bassa e ci si può camminare dentro tranquillamente.»

Si tolse le scarpe e mi raggiunse in riva al fiume, e mentre ci tiravamo su i pantaloni, risvoltandoli per non bagnarli, mia moglie a sorpresa aprì lo sportello posteriore del furgone e liberò nel fiume più di quindici anatre selvatiche. Vidi finalmente mia figlia sorridere di nuovo, afferrò il mio braccio col suo e insieme camminammo davanti alle anatre per un bel tratto, con i piedi in quell’acqua freddissima, quando all’improvviso, Elisabetta si fermò e le sembrò di riconoscere un punto del fiume. Corse verso la riva e cominciò a spostare alcuni sassi.

«Papà, aiutami a scavare per favore!», disse.

«Elisabetta, ma perché vuoi scavare in questo posto?»

«Adesso ricordo! Quando i Romani entrarono a Velch, per conquistare la città, mia zia Larthia mi disse che avremmo dovuto nascondere i nostri gioielli più preziosi, per sottrarli alle razzie dei soldati e così seppellimmo in questo punto la mia collana e un po’ più avanti un suo fermaglio d’oro».

Mi avvicinai e l’aiutai a scavare. Togliemmo alcuni sassi e scavammo il terreno sotto con le mani, quando all’improvviso tirammo fuori dalla terra una collana d’ambra con un pendente d’oro a forma di scarabeo. Incredibile! Era la stessa collana di cui mi aveva parlato Elisabetta nei suoi ricordi di quando si chiamava Velia, la stessa collana che le aveva regalato il suo apa Etrusco più di duemila anni prima. Provammo a cercare anche il fermaglio d’oro della zia Larthia, ma non riuscimmo a trovarlo. 

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