Esistono, al di là della nostra volontà, delle complessità prodigiose, a volte mostruose nelle conseguenze.
Jean Baptiste era uno di quei paradossi.
Un ragazzino biondo e scapigliato come un campo di grano dove il vento ha giocato e danzato.
Il volto lentigginoso, perennemente sporco di terra impastata di umori di frutta. Scalzo.
Le braghe in grado di reggersi da sole.
Spinto da un potente propulsore vitale era l’Attila birichino dei campi e dei boschi di Saint Pierre.
Gli abitanti del nucleuccio di case erano disturbati ma grati a quello spiritello che rivelava a loro la forza meravigliosa della vita.
Io so!
Io so in cosa consisteva la “mostruosità” di Jean Baptiste.
Tutto il suo corpo condivideva la nostra realtà. Sentiva tutti gli indizi della vita.
I suoi occhi no!
Appartenevano ad una dimensione dove il tempo non esiste e tutto è“contemporaneo”.
Là dove noi potevamo vedere una landa deserta, Jean Baptiste vedeva una folla vitale, dedita a costruire, a demolire, ad amare per poi odiare, vivere e morire in alternanza eterna, miliardi di miliardi di miliardi di sorrisi e di pianti.
Una infinita commedia dell’arte, di burattini, di lupi di carta, diavoli di acquerello e angioletti di biscotto.
A volte lo vedevi appoggiato alla staccionata sul limitare dei campi, il mento sulle mani, bearsi e ridere, sgranando i suoi inquietanti occhi colore dei laghi di montagna.
Io so quanto noi tutti invidiavamo la sua deformità, quanto ci urtava la sua genuina felicità.
Un giorno, Jean Baptiste, cedette alla seduzione di quel mondo che lui solo vedeva e decise di impulso di farne parte per sempre.
Non sapemmo più nulla di lui.
Come ricordo mi rimane il tremore delle mie mani, memori del suo collo.