"Dovrei tornare." pensò, mentre armeggiava con la sua macchina fotografica. Era ancora un'analogica, e col tempo aveva imparato a conoscerla, a comprenderla, quasi a darle un'anima. Credeva che questa intesa segreta le permettesse di scattare le fotografie che l'avevano fatta vivere fino a quel giorno.

Ma tornare dove?

Le dita di Elena scorrevano lente sul metallo freddo dell'obiettivo, sfiorandolo con la delicatezza di chi accarezza un volto familiare. Conosceva la sua Leica come si conosce una persona cara: il leggero scatto del grilletto, la resistenza particolare dell'avanzamento della pellicola nelle giornate umide, quel sottile sibilo che precedeva ogni scatto riuscito.

La piazza di Marrakech pulsava attorno a lei, viva di colori che cambiavano a ogni minuto, mentre il sole calava. Aveva fotografato piazze simili a Istanbul, a Buenos Aires, a Bangkok. Sempre la stessa ricerca: catturare l'istante in cui un luogo smette di sembrare straniero e, per un attimo, diventa casa.

"Tornare..." ripeté sottovoce, smontando con cura il meccanismo dell'otturatore. Le parole di sua madre le tornarono alla mente, nitide come una vecchia registrazione: "Non puoi vivere sempre negli aeroporti, Elena. Prima o poi devi mettere radici."

Radici.

Ma lei aveva scoperto che le radici non crescono nella terra: crescono nelle persone.

Il pensiero la riportò a Marcus — il suo sorriso storto quando la vedeva arrivare con lo zaino in spalla dopo mesi di silenzio, il modo in cui preparava il caffè esattamente come piaceva a lei, anche se non glielo aveva mai detto. Con lui, ogni appartamento condiviso per poche settimane diventava un rifugio. Senza di lui, persino la casa d'infanzia non era che un edificio pieno di ricordi polverosi.

Un piccolo click: il meccanismo si era rimesso a posto. La Leica era di nuovo viva. Come sempre, aveva solo bisogno di qualcuno che la capisse, che le dedicasse tempo e attenzione. Elena sorrise appena, sollevandola verso la luce dorata del tramonto.

Attraverso l'obiettivo, il sole che calava sembrava lo stesso di ogni città che avesse visitato: unico, universale, familiare. Forse era proprio questo che rendeva la piazza così accogliente in quel momento.

O forse era il vecchio seduto al tavolino di un bar, il bicchiere di tè accanto a sé, lo sguardo perso all'orizzonte.

Forse la fontana al centro della piazza, che proiettava la sua ombra fino a lei, nascondendo due ragazze che ridevano a mezza voce.

Forse la madre che, dalla terrazza, calava un cestino di pane al figlio, perché scendesse a comprare qualcosa all'emporio sotto casa.

O forse, pensò Elena abbassando per un istante la Leica, era lei stessa a rendere familiare quel luogo, riflettendosi nei volti e nei gesti della gente.

Ogni scena le ricordava qualcos'altro, vissuto altrove. Il mondo intero le appariva come un'unica grande piazza che si ripeteva in infinite variazioni: stessi gesti, stesse necessità, stesse piccole gioie quotidiane.

Era questa capacità di riconoscere il particolare nell'universale che le permetteva di sentirsi a casa ovunque.

Non c'era bisogno di cercare un posto in cui tornare: bisognava imparare a riconoscere casa, ovunque fosse.

Dopo aver scattato la fotografia perfetta — quella che racchiudeva il suo pensiero — si incamminò per i vicoli di Marrakech. L'aria densa di pelle, fumo e benzina le riempì i polmoni, ricordandole Bangkok. Poco più avanti, il mercato delle spezie la accolse con cumino, zenzero, zafferano, cannella e coriandolo: un caleidoscopio di profumi che le fece quasi girare la testa. Seguì l'aroma dolce della menta fresca e quello caldo del tè, mescolato all'odore di tajine e couscous che cuocevano nei vicoli.

 

Si chiese, tra sé, perché non si fosse mai innamorata del Marocco. Forse perché il fascino di questo paese non si lasciava afferrare facilmente: qui la storia dei popoli nomadi era ancora viva sotto la pelle della modernità, e ogni volto sembrava portare il ricordo di un deserto senza confini. Quegli uomini e quelle donne, figli di carovane e tribù, ora vivevano stabiliti nelle città, ma nei loro sguardi restava l'eco del vento.

E forse era proprio questo che la attirava e la respingeva al tempo stesso: un popolo che aveva imparato a essere “radicato”, pur restando nomade nell'anima.

La stanza dove dormiva era sopra un locale a Jemaa el-Fna e l'odore di cibo la impregnava; così quando entrò quella sera decise di aprire la finestra per arieggiare. Seduta sul davanzale della finestra, osservava la gente nella piazza, davanti ai vari locali: chi rideva sguaiatamente, chi parlava sottovoce, chi pure in quel caso era solo a bere seduto a un tavolo, con un piatto di maakouda davanti. Le piaceva guardare la gente, osservare i loro movimenti, capire cosa provassero dalle loro azioni, tentare di entrare in sintonia con loro solo osservando. Sapeva che in realtà viveva le emozioni che la gente le dava, non quelle che la gente voleva trasmettere, ammesso che volesse trasmettere emozioni a lei. Forse era la sua solitudine che le faceva fare questo.

L'atmosfera nella piazza le piaceva particolarmente quella sera, così decise di scendere e immergersi nella Jemaa. In un locale vicino prese un bicchiere di mahia e lo bevve a grandi sorsi, era come se avesse avuto voglia di ubriacarsi dopo tutti quei pensieri sulle radici, sulle case, sulle persone che diventano case! Era in una Jemaa con tante persone diverse, tanti volti, tanti sorrisi, tante vite diverse, voleva solo divertirsi e ballare! Prese un altro bicchiere di mahia. Si scostò dalla folla davanti al locale e in un punto abbastanza libero della piazza, iniziò a ballare da sola, con la sua musica in testa, musica araba, musica che ti penetra dentro l'anima e ti fa muovere, finché qualcuno dalle finestre non iniziò a suonare i gimbri e le qarqab, e allora non fu sola a ballare. Molte persone ballavano intorno a lei, al ritmo degli strumenti, era fantastico. In quel momento vide un ragazzo dai tratti europei che ballava anche lui come tutte le altre persone in piazza, aveva qualcosa che la attraeva, qualcosa di curioso, qualcosa di troppo misterioso perché non valesse la pena conoscere quel ragazzo.

Sempre ballando, Elena si avvicinò al ragazzo, tentando di non farsi notare lo guardava. Era un po' intimidita perché non voleva sembrare sfacciata, ma era interessata a lui. Sì, era un bel ragazzo: moro, occhi azzurri, fisico ben definito ma non troppo palestrato, teneva bene il ritmo della musica ed aveva un bel movimento. Elena guardava quel viso e poi le braccia, le spalle, insisteva nel guardarlo sperando che lui notasse i suoi sguardi, e così fu.

"Preso!" pensò.

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