Ricordo ancora quella volta a Forte Espinoza, e la rustica baita nascosta tra le montagne incontaminate della Nova Columbia. Eravamo in tre in quel gelido autunno del ’78. Io me ne stavo un po’ in disparte di fronte al camino, comodamente seduto su una poltrona in velluto verde, un po’ usurata dal tempo ma ancora sufficientemente comoda, e un bel bicchiere di Jack Daniel's tra le dite infreddolite della mano destra; l’altra mano doverosamente posizionata nella tasca del giubbone in pelo di pecora, intenta a recuperare tutto il calore corporeo perso.
Faceva freddo. Diavolo se faceva freddo. Alla mia destra, vicino al vecchio caminetto arrugginito, sedeva John il Mozzo che, con il solo uso dell’unica mano rimastagli, rollava un’altra bomba carica di pace e amore, emanando fantastiche vibrazioni hippie che in quella baita pittoresca calzavano proprio a pennello. Le foto ingiallite ancora appese alle pareti, ad occhio e croce vecchie una trentina d’anni, mostravano questa piccola comunità di amorevoli fattoni condividere le loro semplici vite in totale armonia. Una situazione in perfetto stile peace and love, da fiori nei cannoni ed orge all’aperto. Un’esistenza leggera, condotta in maniera pura, e sicuramente priva dei dogmi tossici della società dei consumi. Robe d’altri tempi insomma.
Ma trent’anni erano passati, ed ora lì, al posto di tutta quella bella gente, come fosse il frutto di un paradosso temporale, c’era rimasto niente meno che John il Mozzo, che di hippie aveva solamente la marijuana, e nemmeno tanto buona.
Un personaggio sfortunato il Mozzo e che non brillava certamente per sagacia. Deve il suo soprannome agli eventi scaturiti da una tragicomica battuta di caccia del ’62 dove, intento a grattarsi la schiena con la pistola ancora saldamente impugnata, alla vista improvvisa di un fagiano, si piantò accidentalmente del piombo fumante nella mano opposta. La pallottola infuocata, a 360 metri al secondo, perforò diagonalmente sia il pollice che l’anulare della mano sinistra, lasciando di stucco anche l’amico pennuto. La leggenda narra si sia poi auto-trasportato all’ospedale con lo sguardo fiero, un fagiano sulla spalla, e due dita nella tasca dei pantaloni. Le altre tre dita le perse invece appena una settimana più tardi, in maniera ancora più discutibile, durante un’azzardata manovra di chiusura manuale del cancello elettrico di casa. E già, un tipo sfortunato il Mozzo è vero, ma in qualche modo riesce sempre a prendere la vita con filosofia. Conserva ancora oggi tutte e cinque le dita perse in un contenitore di vetro in salamoia, sulla dispensa a metà tra i sottaceti e i carciofini.