Biagio annusa l’aria uscendo da casa. S’incammina per via San Jago e poi taglia per una stradina laterale. Gli immobili bassi che si volevano moderni appena pochi anni fa si fondono con le case in pietra della città vecchia. Poco a poco diventano un tutt’uno indistinto, confuso nella stessa meschinità.

Biagio detesta il loro odore, gli ricorda quello dei vecchi ormai scomparsi e della morte stessa. No, non quello della putrefazione, che non si percepisce neanche nei cimiteri. Il suo quartiere sa di cassetto chiuso, di muffa, d’urina di cani agli angoli delle case, dello zolfo e del verderame rimasti appiccicati agli abiti da lavoro di chi è tornato dalla campagna dopo aver pettinato un orto striminzito per raccattare quattro pomodori e due zucchine. A volte s’intercetta la scia lasciata dai pochi marinai superstiti che si portano a casa qualche pezzogna o mezzo sacchetto di sarde. Il puzzo dei loro scarti di pesce nei cassonetti assomiglia a quello degli orinatoi pubblici. 

Altri olezzi lo infastidiscono mentre percorre le scorciatoie verso il centro. A dispetto della frenesia per il nuovo, c’è ancora chi rivolta cappotti e giacche, chi lava e rilava pantaloni, chi rammenda lenzuola nei punti più lisi con pezzi ritagliati da quelle ormai inservibili, ricavando dai cascami stracci per la polvere o per altre faccende domestiche. D’estate si accomodano gli abiti donati in lascito dai fratelli più grandi, si mettono ad arieggiare gli scialli di lana e i golfini scoloriti per mandar via l’odore di naftalina, si riaggiustano gonne secondo la moda e la taglia della nuova proprietaria.

Biagio non sopporta l’invadenza di quegli ignari e fedeli accompagnatori: i vestiti che si trasformano, camuffano, coprono, agghindano sempre nuovi e transitori custodi, s’impregnano dell’odore della pelle umana che hanno conosciuto nel corso delle loro mutevoli e riciclate vite. E li restituiscono, li spandono in giro contaminando l’aria insieme agli umori e le inclinazioni dei loro precedenti padroni. C’è odore d’invidia in questo quartiere, di micragnosa curiosità per ciò che il vicino possiede od ottiene, di lavoro senz’altro scopo che quello di mangiare. Mangiare, mangiare… Hai mangiato? Cosa c’è da mangiare? Hanno mangiato i bambini? Tutto gira intorno solo al mangiare, unico scopo nella vita, il solo accessibile ai più e inaccessibile a molti. C’è odore di pazienza che più non reagisce alla condanna dell’oblio. Dei disgraziati come lui rimangono solo gli odori e gli oggetti. Per un po’.

 

Nella mente di Biagio non ci sono fantasmi di fuga verso città nuove con esistenze diverse. A volte prova una sorta di rimpianto, quasi una nostalgia per la montagna che appare nei suoi sogni, invito ricorrente e disturbatore dei suoi sonni mattutini con la sua purezza irraggiungibile e con la sua estraneità quasi soprannaturale. Il quartiere di Biagio assomiglia alla sua vita e a quella dei disgustosi suoi simili. È inutile ricordare ciò che è successo e nessuno coglie l’essenza delle vite altrui, anche se tutti sembrano costantemente interessati ai fatti deli altri. Forse perché i propri sono così irrilevanti. 

Il tempo è senza scopo perché scombina le tracce ancor prima di cancellarle. Assomiglia all’intonaco delle case di via San Jago, precario rivestimento che si sgretolerebbe senza rimedio se di tanto in tanto un nuovo erede di quel mondo transitorio non lo rabberciasse con una nuova passata di cemento e una sbrigativa mano di pittura. Tutto si spegne ed è comunque vocato all’estinzione: i desideri ingenui e i gesti fatti senza pensare, i convincimenti e i progetti abbandonati per vigliaccheria, i propositi, le esitazioni, la cattiveria e la rabbia, le affermazioni ritrattate e le promesse non mantenute. Tutto ciò che concorre a fare la vita di un uomo. Tutto ciò che fa un uomo molto più dei suoi slanci eroici e dei suoi entusiasmi, molto più della sua volontà. 

Vita di cui comunque rimane pochissimo, men che meno la memoria. Biagio lo sa benissimo e non si fa illusioni. Perché ognuno è occupato a dar forma alla propria, a difenderla da intrusioni straniere. È solo un simulacro di storia personale, labile e sdrucciolevole, evanescente come gli odori che persistono quanto basta prima di essere rimpiazzati da altri, generalmente altrettanto sgradevoli.

Per le narici di Biagio l’odore del palazzo dove abita Nadia ha un non so che di gradevole. Sa di quel contegno borghese che gli è precluso, di quel mutuo egoismo tra vicini di pianerottolo, che prima d’essere freddezza verso il genere umano è normale riservatezza. L’indifferenza è inodore. In quell’aggregato di estranei gli olezzi umani non lo assalgono coalizzati come una schiera di ficcanaso, non colonizzano il territorio invadendolo con la loro presenza. Il regolamento condominiale, affisso ben in vista all’entrata, vieta appunto di disturbare il prossimo con sentori molesti, pena l’intervento sanzionatorio dell’amministratore. 

Soprattutto nessuno vuole sapere. Forse perché il caseggiato testimonia con la sua sola presenza ciò che è già legge universale, benché questa sfugga a qualsiasi decisione individuale, pur producendo effetti irrecusabili: il mondo è una fila di porte chiuse e la possibilità di aprirle e conoscere ciò che si cela dietro di esse è minima. Non sappiamo cosa si dica o cosa si trami a nostra insaputa. Non conosciamo chi ci osserva né cosa pensi di noi. Ignoriamo se qualcuno ci ami o se voglia ucciderci, se stia facendo qualcosa di cruciale per il nostro futuro e se siamo in grado d’arrestare o di cambiare il suo intento e le sue azioni. Non sospettiamo che sia possibile farlo con le nostre, noi, stranieri disorientati davanti a porte tutte uguali, senza chiavi e senza passe-partout, protetti dalla nostra ignoranza ma non dalla sapienza del caso.

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