Con la bicicletta c’era passato davanti tante di quelle volte … 

Era una villa abbandonata in un paese della provincia bolognese, chiamata la “villa della Strega”. La costruzione era costituita da due corpi a forma di L, di cui l’ala destra corta, era una torre. Quest’ultima aveva un tetto appuntito, un dettaglio che contribuiva alla sua fama sinistra. Al piano terra c’era un piccolo terrazzo, un volume che fuoriusciva dalla sagoma dell’edificio. L’ingresso alla casa era il portone del piano terra della torre, accessibile tramite una scalinata laterale in marmo. Non vi erano altri accessi, solo due ampie finestre corrispondenti a quelle sopra. La parte superiore della torre terminava in un tetto aguzzo, in vero stile gotico, in netto contrasto con le case circostanti, più semplici e moderne.

Un pomeriggio d’ottobre, mentre il sole tramontava, Luca Ridolfi rallentò con la bicicletta davanti al cancello della villa. 

Per la prima volta vide una figura nel cortile: un uomo, con cappotto scuro e guanti, intento a piantare qualcosa. In paese si era parlato molto del nuovo inquilino della casa, ma nessuno sapeva chi fosse né da dove provenisse. Un bel giorno qualcuno aveva visto arrivare una Cadillac nera dalla quale era sceso un tipo allampanato e agghindato come un nobile dell’Ottocento con l’autista in livrea che gli teneva aperta la portiera. Auto di così grossa cilindrata non se ne erano mai viste in paese, figurarsi una macchina americana guidata da uno in divisa! La visione era stata fuggevole: si era subito rintanato in casa.
In quel momento stava piantando quelle che sembravano rose ai piedi del pioppo nero accanto alla casa. Luca appoggiò la bicicletta al cancello e si avvicinò a chi, accovacciato, gli dava le spalle.

«Buonasera…», disse il ragazzo.

Lui si voltò e a Luca parve scorgere uno strano scintillio negli occhi grigi. Notò anche il pallore del volto e per un attimo ebbe paura: sembrava il volto di Dracula, il Nosferatu dei film della Hammer, famosi per essere truculenti e pieni di effetti speciali. Per un momento pensò di trovarsi davanti a Christopher Lee.

«Buonasera», disse l’uomo con voce strascicata e cavernosa.
«Non avevo mai visto nessuno in questa casa», mormorò Luca ancora indeciso se scappare. Va bene i film dell’orrore, ma che fosse lì davanti a lui un mostro simile e pulsante di vita, non se lo aspettava.

«Ah sì?»

«È una villa abbandonata dalla fine degli anni Ottanta, prima ancora che io nascessi… Ormai sono quarant’anni che è disabitata».

«Mi complimento con te... Sai fare qualche calcolo a mente. Scommetto che i tuoi amici non ci riescono, eh? Sempre a guardare quel coso in mano. Se non ti dispiace, ora devo finire».

«Scusi se l’ho disturbata».

Chissà perché aveva definito il cellulare “quel coso?” si chiese. Doveva avere sui sessant’anni, quindi non così vecchio da non sapere come si chiamano i telefoni portatili nel 2025. C’era suo nonno molto più anziano che lo maneggiava perfettamente, anche se il suo era ormai obsoleto.
«Comunque sono appena arrivato. Perché ti interessa, ragazzo?»
Il tono cominciava a essere infastidito.

Luca inspirò a fondo: «Questa villa mi piace molto, mi fa pensare a certi film e romanzi horror… a Stephen King». 

L’uomo rimase in silenzio per un istante, conficcando la paletta nella terra umida.
«E poi tra poco mi dirai che questa casa è il castello di Dracula, eh?» 

E si fece una bella risata che echeggiò nella sera.
«No, non Dracula…» pensò, incapace di individuare a quale creatura della notte cinematografica o letteraria gli assomigliasse. Gli mancavano ancora alcuni elementi fondamentali per capirlo.

Pallore cadaverico, abiti di altro secolo, occhi grigio-blu. Capelli serici lunghi e bianchi che cadevano sulle spalle. Nessun personaggio specifico gli veniva in mente. 

All’improvviso uno stridio di gomme: un camion aveva frenato di colpo per non investire un cane. 

L’uomo si portò entrambe le mani alle orecchie e proruppe in un grido:

«Non posso sopportare questi rumori!»

Ecco un altro elemento: iperacusia! Ancora non bastava, anche se gli era venuta un’idea.

«Però è davvero curiosa, questa villa», continuò Luca, guardando l’edificio che, con il sole al tramonto, assumeva un colore rossastro.
«Scusami, ragazzo, ma ora devo proprio rientrare», disse in un tono che non ammetteva repliche.

Guardò i fiori: non erano veri ma di plastica. Anche la terra non era terra ma un’aiuola di sintetico muschio verdastro.
«Mi chiedevo…» provò di nuovo Luca, «sarebbe possibile visitarla? Solo un’occhiata, se non disturbo».

«No mi spiace, ora devo proprio rientrare», sfilò i guanti, accennò un saluto con la mano e rientrò. 

Luca notò che ne indossava un altro paio che sembravano di seta.
All’improvviso tutto gli fu chiaro: c’era un personaggio nel racconto di Edgar Poe, “Il crollo della casa Usher”. Era un certo Roderick Usher che soffriva delle stesse patologie: insofferenza ai rumori, ipersensibilità tattile, pallore…
Ma che sciocchezze, erano tutte fandonie, doveva essere fuori di testa per credere che provenisse da un racconto. E poi come avrebbe fatto a varcare il secolo, visto che la storia era ambientata nel 1847? 

Sul luogo l’autore non era stato esplicito, presumibilmente l’Europa, dato che trattava di nobile stirpe aristocratica.
Qualche giorno dopo, passando lì per caso, lo vide salire con l’autista sulla Cadillac e partire verso il paese, forse per fare la spesa, chissà. 

Sentì il cuore accelerare: era l’unica occasione che avrebbe mai avuto.
Scivolò lungo il muro laterale e scoprì una finestra a bocca di lupo, semi-occultata dall’edera. Con uno sforzo deciso sollevò la grata arrugginita, sfondò il vetro e si calò nello scantinato.

L’aria era fredda, satura di odore di muffa e terra bagnata. La luce filtrava appena, disegnando ombre sinistre tra casse e botti ormai marce. 

Un fruscio improvviso lo fece trasalire: due grossi ratti guizzarono tra i detriti, le code striscianti sul pavimento.

Stringendo i denti, Luca avanzò fino a trovare una scala di pietra che saliva verso una porta socchiusa. La spinse ed entrò nel cuore della villa.
Si ritrovò in un salone immenso che occupava l’intero corpo principale. Pesanti tendaggi di velluto rosso coprivano le finestre, lasciando filtrare solo sottili lame di luce pomeridiana.

Con un gesto impulsivo scostò un drappo: la stanza si illuminò, rivelando un clavicembalo scuro e lucido al centro. Dietro, lungo tutta la parete, una libreria traboccava di grossi volumi antichi. Sul leggio dello strumento, un vecchio spartito ingiallito portava un titolo che gli fece correre un brivido lungo la schiena.

«Il Palazzo Incantato», la stessa musica che, nel racconto di Poe, suonava Roderick Usher nella sua casa maledetta. 

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