Modena. Anno di grazia duemilaotto.

Sono atterrato in questa città da pochi mesi.

Dico atterrato  perché  mi sembra in verità  di esserci  sbarcato come un marziano  con la sua astronave. In un mondo completamente differente dal mio.

Provengo da un paesino di poche anime della Calabria, quasi ai piedi dell’Aspromonte.

E una mattina, men che me lo aspettassi, come un fulmine a ciel sereno, Ludovico il postino mi recapitò  una raccomandata che proveniva dal Ministero delle Finanze.

Con trepidazione e timore firmai la ricevuta e presi la lettera, ma con fare alquanto dubbio.

Sembravo più uno sminatore alle prese con una bomba e quindi trattavo con cura quel foglio di carta ben racchiuso nella busta colma di francobolli.

Il mio era un misto tra curiosità e paura fottuta di  aver superato quell’esame di concorso svolto pochi mesi prima.

Quando si pensa che si vuole emigrare  perchè il tuo paesino ti stà stretto è tutto un parlar a ruota libera: ”Che noia, come possiamo vivere qui noi ragazzi, questo paese non offre niente, che futuro abbiamo?...”

Ma quando quel giorno stai chiacchierando con gli amici davanti al bar di Armando e arriva Ludovico il postino, la frenata di quel motorino è talmente stridente e la busta nelle tue mani così pesante che tutto cambia. Tornai a casa dei miei genitori come fosse caduta una meteorite sulla mia testa.

Partii la mattina molto presto.

La prima parte del viaggio rispecchiava l’idea che si ha del Sud. Quel Sud bistrattato, quel Sud dove quello che è dovuto sembra quasi si debba chiedere per piacere.

Infatti il ritardo nell’arrivo del treno, la  trascuratezza negli ambienti e la gente accalcata davano molto l’idea di un treno non di una nazione Europea, ma molto vicina al Sud America.

Già, anche lì, a Sud di qualcuno o di qualcos’altro .

Dunque sbarcai in questa cittadina del Nord, come un qualsiasi emigrante.

Parolone.

Sembra quasi che abbia fatto migliaia di chilometri, attraversato l’Oceano e trovato chissà quali popoli.

Ma al comune di suddetta cittadina la parola ”migrante” fu apposta dall’addetto alle carte d’identità con un timbro rosso consumato all’inverosimile.

Dopo varie peripezie per trovare un alloggio che mi permettesse di non dilapidare l’intero misero stipendio, trovai nella signora Ada, anziana vedova di settantasette anni, un angelo venuto in mio soccorso.

La incontrai per caso. Ero dal fruttivendolo all’angolo di Via Crepet. Fruttivendolo fornitissimo e, cosa non da poco, economico. Molto economico. Si parlava di economia e i miei studi universitari mi facevano affrontare l’argomento con sicurezza.

La sicurezza  mi cadde immediatamente quando capii con quale misera pensione vivesse la Ada...

La stanza c’era, la proposta mi venne fatta, pochi giorni dopo trasferii baracca e baracchini da lei.

La camera era carina, piccola ma ben tenuta. Aveva bisogno di una rinfrescata, ma a quella posi rimedio presto.

Azzurrina.

Amavo quel colore, e in più mi ricordava il cielo della Calabria. Lì a Modena il sole era sempre offuscato dalla nebbia, presenza inquietante, avvolgente e direi appiccicosa.

No. Direi che la nebbia non fa per me.

All’interno della stanza i mobili erano quelli comprati  dalla signora negli anni quaranta, quando prese marito: Il signor Oreste, ferroviere. Fu premiato dopo quarant’anni di stimato lavoro, con uno splendido orologio placcato oro, vanto dello stesso.

Domandona.

Io se mai succederà, cosa vorrò mai come riconoscimento di onorato lavoro?

A questa domanda non seppi dare una risposta immediata. Penso di averla ancora in sospeso, tra il tragico e il patetico.

Sul mobile in finto stile Luigi xv erano poste delle foto. L’Ada mi chiese se avesse dovuto spostarle, magari creavano fastidio. Dissi di no, erano belle in quel color seppia e poi facevano molto famiglia, quindi compagnia.

Lo sguardo quel pomeriggio si fermò su una di quelle fotografie in particolare: la signora Ada stava volteggiando col marito in un locale della bassa Modenese, in un ballo.

In quel momento sentii bussare alla porta, era lei. Vide che tra le mani avevo la cornice con la foto di loro due.

Non si arrabbiò, anzi, mi invitò a sedermi ai piedi del letto.

Prese la foto in cornice con una mano e con l’altra strinse la mia, come se in quel momento dovesse farmi una tra le più grandi confessioni.

-Vedi questa foto, Angelo? Era il millenovecentosessantacinque. Quel locale si chiamava Paradiso, si andava lì ogni domenica. Era frequentato per la maggior parte da coppie di ferrovieri, una sorta di dopolavoro, ma a parte la consapevolezza che non si abbandonasse  mai il percorso lineare e parallelo delle rotaie, era per noi lo svago. Sai, si ballava il Tango, ricordo ancora i primi passi: posizione iniziale; passo laterale con ginocchia piegate; passo in avanti di lui che incrocia il suo piede destro; lei che retrocede e incontra il suo piede sinistro. Ma vedi, caro ragazzo, il tango esprime più di ogni altro ballo la complicità, l’intesa massima nella coppia, portata dalla musica a un intreccio e un’intesa vera, emozionale. E io amavo quell’uomo alla follia. E non ho mai smesso di farlo. Mi manca tanto, sai?-

La signora Ada si congedò perchè le lacrime avevano riempito i suoi occhi azzurri. Anch’essi come il mio cielo.

Stetti in silenzio per un po’. ma le riflessioni  furono tante.

L’incontro tra due persone come noi sembrava non fosse casuale.

Sì, lei che aveva vissuto un amore intenso espresso nel ballo e io migrante. Il tango infatti aveva preso vita nelle strade, nei locali di periferia, dove si raccoglieva la popolazione di immigrati giunti nel nuovo continente.

La mattina dopo mi sembrò di vedere le cose in maniera differente, la stessa nebbia mi sembrava non più un nemico, ma una sorta di fumo da avanspettacolo che rendesse tutto più intimo, riservato.

Arrivò la primavera.

Quella domenica bussai alla porta della signora Ada.

-Senta: le andrebbe di ballare?-

-Ma come Angelo, qui? Ma io sono vecchia ormai!-

-No, mi scusi, non le ho detto tutto. Qui dietro di noi hanno organizzato un concorso di ballo. Di Tango!-

Dapprima lei mi guardò come fossi uno svitato, ma vedendomi molto convinto mi disse di sì.

Scendemmo in pista.

Qualche lezione presa durante l’inverno fece la sua apparizione e la signora Ada lentamente, ma con grazia, accennò dei fantastici passi che ancora non conoscevo.

Non vincemmo, ma ricordo quella domenica, passata con una signora tornata raggiante, come una delle più belle della mia vita.

Lei che aveva ritrovato il sorriso e io scoperto lati del mio essere assolutamente sconosciuti.

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