L’amore e l’odio hanno governato il mio rapporto con questa istituzione. E’ necessario chiamarla istituzione: è così penetrante il concetto di casa nella nostra società, nella nostra cultura e raggiunge una così significativa misura economica che ha diritto a un posto di valore e di riferimento nella nostra vita.
Ho vissuto un’infanzia dove lo spettro del trovarsi improvvisamente senza un tetto compariva nei momenti più disparati. Era la paura esistenziale di Lina. Visse in affitto tutta la vita; negli ultimi anni trovò sistemazione in un alloggio di un’istituzione religiosa che le garantiva continuità. Mi caricai sulle spalle questa fobia e vissi come meglio potevo.
Quando nacque mia figlia, mi fu assegnato un alloggio dallo iacp, dove accolsi anche i suoceri. C’era spazio per tutti ma cominciarono allora i primi sintomi della dicotomia. Quei vecchi non avevano colpe. Erano i conflitti con mia moglie che la svilupparono. Non potevo sedermi sul divano per leggere un libro: bisognava risparmiarlo per “quando viene gente”. Il salotto e l’angolo pranzo erano off limits sempre per “quando viene gente”. Ho costruito così la convinzione che la casa è un oggetto d’uso. La sua disponibilità è un premio al nostro vivere, una gioia da condividere con chiunque entra. Ha bisogno di manutenzione regolare ma non deve diventare il totem al quale sacrificare quel bene così prezioso e non rinnovabile che si chiama tempo.
Ho vissuto per diversi anni da solo in affitto e ho imparato a razionalizzare tempi e interventi per garantirmi una vita più libera. Laura avrebbe qualche riserva in merito ma i suoi mugugni sono dettati più da una presa di posizione di genere che da un’oggettiva realtà.
Quegli anni mi hanno anche insegnato quanto precaria sia la condizione umana. Tuttavia la casa che aspira a essere quel giusto premio di cui accennavo, può diventare provvisoria.
Tutto è transeunte nella nostra vita, anche lo spazio che dedico a queste considerazioni. Ricordo la trasmissione televisiva in cui il grande Edoardo, invitato, si presentò con una valigia. Il conduttore gli chiese ragione. Rispose che a novant’anni bisogna essere sempre pronti all’ultimo viaggio. Questa è anche l’eredità di mia mamma sopravvissuta a un lager della 2° guerra mondiale. Aggiungeva che l’appuntamento con il destino non ha vincoli anagrafici.
Il mio rapporto con l’istituzione casa, simbolo del vivere e del sopravvivere, è quindi improntato a questo: devo essere pronto ad andarmene. Mi sono attrezzato: in una piccola valigia ci sono i documenti del mio passato. Qualche foto, la certificazione del mio essere nel mondo, altri carteggi delle ricerche da me fatte: testimonianze che lascio a chi mi ama. Non serve altro.
Tutto può essere distrutto in pochi minuti da una di quelle macchine d’ufficio ritenute preziose se non addirittura indispensabili.
In verità il mio rapporto con l’istituzione casa è sì provvisorio ma anche profondo, esistenziale capace di rinnovare la bellezza di vivere. Ogni sera posso tornare, d’inverno al caldo, d’estate al fresco e trovare la foto di mia figlia, di mio padre e della mia mamma. Più tardi Laura aprirà la porta e, con voce stanca, tradita da una legge ingiusta, quella della Fornero, dirà: ”…meno male, sei a casa….”. Si vive così, con quello che si può e non con quello che si vuole.
Amo la mia casa e quando ne scrivo, certifico un sentimento che racchiude e moltiplica la mia vita.