– Basta! A pallone non ci giochi più! – sbottò Claudio, suo padre. Quarantacinque anni. Burbero. Alito alcolico. Grasso.

Si pulì la bazza con un tovagliolo. Trasecolò due dita di Tavernello. Ruttò.

– Ma babbo. Lo sai quanto ci tengo, – miagolò Alan. – Lo sa...

– Niente sa, – lo interruppe lui. – Ne abbiamo già parlato. È giunto il momento che tu capisca. I sogni sono belli, piacciono a tutti, ma arriva un momento in cui si devono abbandonare, se vuoi... – lo squadrò. – Crescere. –

– Non lo farai. –

– E invece sì. Da domani vieni in officina con me. –

Alan sbarrò gli occhi. Brividi lungo la schiena. – Cosaa? –

– Hai capito. Non fare il tonto. La serie A riuscirà a fare a meno di te, tranquillo. –

Alan D’Amore aveva quattordici anni. Un neo sotto al naso. Le gambe e le braccia corte. Gli occhi color nocciola. In testa gli cresceva un cespuglio di capelli ingarbugliati che non riuscivano a nascondere le orecchie a sventola.

Suo padre gli aveva appena dato la brutta notizia: non avrebbe più giocato con l'F.C. Santi Club, la squadra del paese. In officina c'era bisogno di mani giovani. Sua madre Martina non c'era più e Claudio sosteneva che da solo non ce la facesse. Dovevano entrambi rimboccarsi le maniche.

Alan vide il mondo che crollava sotto ai suoi piedi. Vuoto nei globi oculari.

Era tanto che mancava dal campo. Aveva subito un infortunio alla tibia che lo aveva costretto a tre mesi di stop. Adesso era giunto il momento di ritornare alla grande. I suoi compagni lo chiamavano sempre per sapere come stesse. Lo pregavano di tornare perché da quando mancava lui,nessuno segnava più. Addirittura rischiavano la retrocessione.

Era l'attaccante di punta della sua squadra. Ventotto reti in venticinque partite. Un record per il Santi Club.

Un record a quattordici anni.

Voluto fortemente dall'allenatore Silvio Capelli, nel giro di un anno si era guadagnato la maglia numero dieci e la fascia di Capitano. Un onore. Una vittoria meritata versando sangue e inghiottendo polvere. Fatica. Era diventato il punto di riferimento. Lo chiamavano tutti «il ragazzo d’oro».

– Comunque sono minorenne. Non posso lavorare – commentò Alan senza alzare lo sguardo. Leggero tono sprezzante.

Suo padre inghiottì altro vino e lo fissò torvo. Pausa. – Ho detto che vai a lavorare e vai a lavorare. Punto. Non è un tuo problema. –

– Non è un tuo problema – si ripeté Alan sottovoce.

Non è mai un mio problema, pensò, quando si tratta di me.

Ma perché quando gli chiedeva qualcosa suo padre gli rispondeva sempre che non era un problema suo? Come se non fosse suo figlio? Come se fosse un estraneo?

Lo faceva impazzire. Mancanza di risposte = crisi di nervi.

Eppure nel suo inconscio, qualcosa lo obbligava ad andare avanti. A chiedere. Per sfamare quel desiderio feroce di sapere. Conoscere. Una passione che gli aveva trasmesso Martina, sua madre, morta un anno prima con una siringa infilata in vena. Overdose. Tossicodipendente da quindici anni, nell'ultimo periodo si era ridotta a vendere gioielli del matrimonio al Compro Oro.

Desolazione.

Aveva deciso di andarsene senza sapere come suo figlio sarebbe cresciuto. Che cosa avrebbe fatto. Chi sarebbe diventato.

– Un fenomeno – biascicò Alan.

Perché suo padre non lo lasciava in pace? Perché gli doveva tormentare la vita?

Perché lui i sogni non ha mai saputo che cosa sono.

Lo sapeva quanto fosse legato alla sua squadra. Al suo sogno. Quanto lo inseguisse. Cosa sarebbe stato disposto a fare pur di raggiungerlo. E lui glielo voleva distruggere.

No. Questo non glielo avrebbe mai permesso. Se annichiliva il suo sogno, annichiliva anche lui.

Alan, la punta di diamante del Santi Club, ci teneva un sacco a fare bella figura alla prima partita del girone di ritorno; contro lo Scalo S.S. L’anno scorso, primi in classifica.

Magari con una doppietta o perché no una tripletta. Poi avrebbe guardato il cielo e, puntando le dita in alto, avrebbe dedicato i goal a sua madre.

Lassù.

In cielo.

Ad osservare il campione che era diventato Alan, suo figlio.

Perso troppo presto.

– È definitivo? – chiese per l'ultima volta Alan. Gli occhi pregni di rassegnazione. Neri. Posati su di lui.

Tormento nelle viscere.

Caos.

Suo padre fece sì con la testa senza sprecare parole.

– Te ne pentirai. Amaramente – decretò Alan. Dopodiché si alzò, immolò il piatto d'Amatriciana nell'acquaio e aprì un cassetto. Estrasse un gomitolo di spago, lasciò la cucina.

– Mi pento ogni giorno – commentò suo padre. Voce atona, grave.

Alan aprì la porta di camera sua su cui era affisso un poster di Messi e, raggiunse la scrivania. Vi appoggiò il gomitolo. Prese la sedia in stile Settanta.

La stanza era un quadrato di pochi metri: letto a due piazze all'ingresso. Mensola con palloni autografati e sciarpe. Uno stereo Grundig. Un armadio su entrambi i lati. Scrivania con plasma collegata alla Play Station.

Lui a lavorare non ci sarebbe mai andato. Non ora. Non a quell'età.

A quattordici anni si va a scuola, si esce con la ragazza, si pratica lo sport più bello del mondo.

Il calcio.

Non si sgobba. Per quello c’è tempo.

Come descrivere la sensazione di un pallone che buca la rete e che hai fatto goal e che tutti ti guardano e che l'allenatore ti applaude e che il fenomeno sei tu?

Impossibile se non hai mai calcato quel prato verde e non hai mai sentito pronunciare il tuo nome allo stadio.

Davvero impossibile.

Solo Alan lo sapeva. Solo lui aveva sentito l'adrenalina crescere e serpeggiare come un torrente. Aveva sentito il cuore battere quando nello spogliatoio l'arbitro chiamava il suo nome.

«Numero dieci: D’Amore».

E aveva sentito l'apparato respiratorio spegnersi quando percorreva quello che lui chiamava "Il miglio verde", come il suo film preferito, ovvero il tratto, il tunnel, che separa gli spogliatoi dal campo. Quegli ultimi cento metri potevano essere vita o morte.

Sì. Alan sapeva.

Ma adesso ne prese del tutto coscienza.

E se niente di tutto questo sarebbe mai potuto tornare, allora anche il resto non avrebbe avuto ragione di esistere.

Non c'era posto per altro. Se l'era promesso una sera mentre era disteso sul letto e osservava i lampioni che sfavillavano fuori dalla finestra. Intorno ai palazzi. Veduta scarna di una città morta. Una città qualsiasi di un paese qualsiasi.

No city.

O divento il più grande di tutti o mi ammazzo.

Sua madre all'epoca la prendeva a ridere. Faceva un gesto con la mano e si metteva a sparecchiare.

Perché a quell'età, i bambini, non sanno cosa dicono. Questo sosteneva lei.

Alan, cupo in volto, si sfregava le mani sui pantaloni e ripeteva la sua promessa. Che per nessuna ragione al mondo avrebbe infranto. Era quello il suo sogno. E nessuno, proprio nessuno, glielo avrebbe distrutto.

Nemmeno suo padre.

Alan mise la sedia al centro della stanza, rivolta verso la porta d'ingresso. Una lampada a forma di pallone gettava raggi bianchi sulle piastrelle gres. Brezza leggera filtrava da fuori.

Alan chiuse gli scuri. Spense la luce. Spinse PLAY sullo stereo.

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