La siepe che costeggia la strada cittadina osserva con apparente indifferenza lo scorrere di auto, biciclette e moto che le passano davanti. Pochi i passanti sul marciapiede, in questo sabato di marzo.
Cammina Claudia lungo la siepe, vorrebbe improvvisamente fanne parte, posarsi su un ramo e da lì guardare sfilare il mondo.
Che strabiliante differenza può esserci tra lei e quella siepe? Entrambe esistono; certo, lei può muoversi, ma è come stesse da una vita su quel tratto di marciapiede.
Eppure non è così, stando al suo orologio. Sí, forse i minuti son pochi, ma i secondi che li compongono sono distesi a terra, ben distanziati, e come denti di una cerniera lampo, si chiudono al passaggio di Claudia.
Tutte le cose interessanti sembrano poste dall’altro lato del marciapiede.
Cammina volgendo la testa alla sua destra e osserva con curiosità, una caffetteria, una bottega di vini, un mattatoio.
Dalla sua parte finalmente la siepe si interrompe, lasciando il posto a un luogo conviviale, umano, confortevole: una pizzeria dall’uscio piccino che introduce un interno luminoso, ampio, con tanto legno sopra e sotto. La sala adiacente, aggiunta probabilmente in un secondo momento, è collegata alla struttura originaria da un tettoia sbilenca. Anche se completamente vuota, la sala conserva con parsimonia le gesta gioiose dell’ultima festa.
Ora Claudia vorrebbe far parte del nuovo spaccato di vita che le si è aperto alla sua sinistra. Entrare, perché no? Fermarsi e colloquiare con i camerieri, ordinare qualcosa di sapido e caldo. Rotondo, come il viso di una mamma.
Sicuramente, in quella pizzeria anni ottanta, il tempo fa un salto indietro. Si potrebbe ritrovare ragazza, trucco eccessivo e spalline imbottite.
Non entra però, e cammina ancora, nella sera padovana, tra le luci di fari e insegne. Vorrebbe scendere dal marciapiede, per vedere se il traffico si ferma e succede qualcosa. Magari potrebbe scoprire che è tutto un sogno, che quello che le è capitato in questi anni non è reale. Reale o non reale, varrebbe la pena fermare il mondo, costringere le persone a guardarsi in viso. Chiedere a passanti e automobilisti di mettersi a camminare insieme a lei. E poi, dove andranno tutti? È solo perché sta percorrendo un senso unico dal verso sbagliato, che si sente così strana stasera?
Claudia intanto è arrivata a destinazione, davanti a lei c’è il suo condominio, le luci delle cento finestre con gradualità si accendono.
Dovrebbe entrare: è casa sua.
Al terzo piano, appartamento 35.
Ci vive da un anno.
Ma i piedi non si fermano, continuano ad andare.
La strada svolta a sinistra, questa volta non c’è la siepe, ma case, negozi dalle serrande abbassate, una chiesa, un bar buio con la proprietaria che legge il giornale appoggiata al bancone.
Sì, c’è la guerra, e la pandemia.
Cammina Claudia e il suo corpo si sta consumando, come una gomma su un segno di biro che non vuol venir via. È strano, perché ovviamente si consumano prima i piedi e le gambe, eppure il resto del corpo, anche senza piedi e gambe, procede ugualmente, disobbedendo a qualsiasi legge fisica. Per ultima rimane la testa; ormai Claudia è arrivata a Prato della Valle.
Già, è sabato e una corona di bancarelle adorna la piazza circolare. Claudia, con le residue cellule rimaste del suo corpo, compie un ultimo sforzo e raggiunge la bancarella dei filati. Per fortuna, i suoi bei capelli castani ci sono tutti e si avvolgono a matassa, su un cestino in esposizione.
Verranno acquistati da una signora che li sceglie tra i tanti proposti, scambiandoli per fili di cotone.
Chissà cosa ne farà. Forse il davanti di un cuscino un po' retrò.