Una lentezza mortale mi assale mentre sono in fila per un tampone molecolare. Non avevo mai percepito l’infinito prima d’ora. Adesso sì. Lo vedo. È la coda di automobili dietro e davanti a me. Io sono solo un puntino beige di questo immenso infinito che altri chiamano attesa. Beige come la Renault in cui siedo con guanti e mascherina. Il sole lumeggia a mezz’asta nel cielo. È caldo per essere dicembre. Ci pensavo ieri mattina sul balcone, l’unico luogo aperto che mi è concesso visitare da undici, oggi dodici, giorni. Il surriscaldamento globale allora è vero che esiste. Mentre ci penso mi sento un po’ come i negazionisti dell’ultimo gran sforzo di Netflix, uno sforzo che per la forma che ha assunto il suo risultato: una merda, potremmo definire l’ennesima grande cagata. Che poi negazionista non lo sono mai stato. Al massimo un po’ pigro e procrastinatore. Però fare colazione a maniche corte sul balcone il 29 dicembre mi ha fatto riflettere. “Nome e cognome?”

“Tommaso La Notte”

“Vada”.

Rifletto sul concetto di attesa. Su quanto siamo talmente poco predisposti all’attesa che o facciamo il possibile per annientarla programmando il futuro o facciamo il possibile per sviarla destinandoci a contenitori: ci riempiamo sino all’orlo di distrazioni. Anche a me non piace l’attesa. L’attesa di un momento bello fa schifo quanto l’attesa di un momento brutto. Non ci si può abituare all’attesa. Un’altra cosa a cui non ci si può abituare è il bastoncino nel naso che chiamiamo tampone. Però in quel caso l’attesa (dell’estrazione dal naso del bastoncino) è l’unica cosa lontanamente piacevole alla quale aggrapparsi, l’attesa prospetta la fine del fastidio, un fastidio al quale nessun umano potrebbe mai abituarsi. L’attesa è diventata una cosa bella. Non ho più certezze. Il Covid ha fatto crollare tutte le certezze della mia vita, soprattutto La Certezza suprema: che gli altri sono stronzi, ma che finché siamo in un contesto sociale diplomatico, non possono farmi male fisicamente.

Ecco. Anche questo è venuto meno. Apro il finestrino. Mancano due automobili. L’infinito sta finendo e io, come risposta fisiologica di disappunto, non riesco a non trattenere un rutto. È davvero molto forte. Dovrei vergognarmi. Ho fatto un rutto a qualche passo dall’infermiera che fa i tamponi. Mi ha sentito? Forse si, forse no. Che importa? Non la rivedrò più (spero). Allora non si sa perché inizio a sorridere e il sorriso diventa piano una risata. Sono nella Renault beige. Rido. Poi mi trattengo. Cazzo. Tocca a me. Non posso ridere. Non posso ridere. Pensa a qualcosa di brutto!!! Non posso ridere. Non so a cosa aggrapparmi per non sembrare un coglione. Questa se mi vede ridere penserà ‘Ma che cazzo si ride ‘sto disagiato? Deve fare un tampone, mica sta vedendo un monologo di stand up comedy.’ 

Ricorro ai miei studi. Ricorro alla sacra persuasione della filosofia morale. Mi convinco con un divieto morale di natura profondamente consequenzialista: prima di fare il tampone non devi ridere, che poi il tampone esce positivo. Smetto di ridere all’istante. “Buongiorno” “Buongiorno”. Prima di andarmene le chiedo: “quando dovrebbe arrivare l’esito?”

“Tra le 48 e le 72 ore”.

Perfetto. Altra attesa. Nel frattempo guarderò un film, scriverò qualche canzone, mangerò tre volte al giorno, mangerò tantissime arance e forse starò davvero un po’ solo con me stesso in silenzio, e mentre il sole sorgerà e tramonterà per almeno altre 2 volte, io mi lascerò assalire dalla ormai solita lentezza mortale che mi accompagna da 11, oggi 12, giorni.

 

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