Quando lo vedo arrivare sono già pronta a iniziare il balletto delle dimostrazioni di amicizia: mani che si tendono, sorrisi, baci a labbra asciutte e sospese, abbracci impostati. Ma anche: occhi che scappano da tutte le parti per non guardarsi veramente. Paura di perdersi. Nell’iride altrui, nel diaframma della pupilla, che continuamente apre e chiude il piccolo foro nero per fagocitare meglio le immagini in base alla loro scala di importanza. Io su quale gradino sto? Tu stai in cima, un masso in procinto di cadere; dopo, la scala distrutta: avrò per sempre solo e soltanto te come unico gigantesco fotogramma in stop motion.

 

Immagine: le tue pupille che per meno di un secondo si impiantano in perfetto sincrono lì dove tengo le mie, anch’esse perfettamente allineate come puntatori laser o microscopiche bocche di cannone che abbiano già proiettato la palla in finta lega di ferro vedendola schiantarsi sul bersaglio (come vero burro fuso); il bersaglio intatto. La vittoria va intera all’esercito delle tue ciglia che come tutti i buoni soldati, anche questa volta, hanno fatto prigionieri. Uno in particolare. Me. Dopodiché è pura, brada, dissoluta, malcelata indifferenza, quella degli occhi, i tuoi, che non scappano più, gironzolano attorno, cani sciolti, affamati di dettagli insignificanti portati in primissimo piano, del cuscinetto di sottofondo fatto di odori, suoni, rumori; ma non di fuga. Non più. Hanno capito che per andarsene basta poco: imboccare una porta. Alzarsi dalla sedia è diventato relativamente facile, accomiatarsi anche (esistono mille stupide scuse non direttamente verificabili) ma non più strettamente necessario da quando ti convinci che è tutto un inganno. In realtà non c’è nessun pericolo. Si tratta infatti di un film. Sì, soltanto un film. Girato nella mia testa per giunta. E tu ci sei finito dentro. Nella mia testa. Nel mio video amatoriale. Miglior attore protagonista. Io premio per la migliore regia mai avvenuta, non di certo per la recitazione. Io non recito. Fingo solo con me stessa.

 

Quello che succede è che per un attimo, meno di un secondo, anche tu ti rivedi, o ti sembra, in quel bagliore da sala di ripresa che pulsa nei miei occhi. Per meno di un secondo, andando a combaciare, perfettamente, con il tuo doppio da me creato e messo in scena. L’alter ego. Quello che recita per me. Quello innamorato di me. Nella vita reale non lo sei e non fingi affatto di esserselo, tantomeno con te stesso. No. Nella vita reale, precisamente all’interno di un bar, ora esatta: 12.50 a.m., sei, anzi, rimasto per quasi un secondo netto sotto shock a causa dell’improvvisa apparizione dal nulla, dopo esserci scambiati soltanto uno sguardo, di un minaccioso fotogramma nel tuo cervello: noi due, ex colleghi e amici, che ci baciamo. Un bacio vero, da film. Un abbaglio, naturalmente. Un chiaro gioco di specchi riflettori, ti dici. E tu l’ingenua allodola. Perché nella vita reale sei innamorato, sì, ma di un’altra. Che non sono io. Né la mia evanescente controfigura per riprese interne.

 

Chiarito pragmaticamente l’equivoco con te stesso perciò resti. Da uomo con le palle che sei resti a portare a termine lo show (ormai non si può più evitare), con le sue domande obbligatorie: come va, cosa fai, come stai; io vado, faccio, sto. A tutto o quasi rispondiamo: bene. Come da protocollo. Ti trovo in forma (ma stai attento a non aggiungere “splendida”). E lui? Lei? Ci chiediamo contemporaneamente sovrapponendo le voci in un acuto stridente. Lei aspetta un bimbo. Bevi un sorso dal tuo bicchiere. Presto sarò papà. Silenzio. Sorrido. Sorridi. Ecco la scusa perfetta. Basta un bip del cellulare, tutto d’un fiato ti scoli il liquido giallastro rimanente, poi: devo proprio andare. Mi ha fatto piacere, comunque. Alla prossima.

 

Con passo affrettato ti allontani dimenticandomi lì, sulla sedia. Non tornerai a riprendermi (o forse sì? To be continued).

 

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