Ogni riferimento a persone e fatti è puramente casuale

 

Capitolo III

La Notte prima della sentenza

 

 

Il cancello si aprì lentamente, come un vecchio sipario stanco. Nella villa illuminata a festa, il tempo sospeso sembrava galleggiare in una dimensione parallela: tutte le luci irradiavano un bianco chiarore che riverberava sulle pareti attraverso le gocce di cristallo dei lampadari.

 

La notte profumava di fiori freschi che adornavano i saloni. In un elegante frac, il duca di Quintavalle si muoveva tra gli invitati come un direttore d’orchestra fra i suoi musicisti, agile e sicuro di sé, mascherando una esagerata e fasulla sicurezza. Ogni parola sussurrata, ogni risata soffocata, tra lo sventolio dei ventagli e le coppe di champagne, seguiva un copione artefatto, scritto da lui, al quale gli ospiti si attenevano senza rendersene conto.

 

L’evento da festeggiare era la sentenza che sarebbe stata emessa il giono seguente, condanna o assoluzione.

Dopo anni di silenzio e di abbandono, il duca apriva le porte a una selezionatissima élite, gente di potere, affari loschi e di memoria corta, che accarezzava il sospetto sulla colpevolezza del padrone di casa, danzando sulle note di un valzer.

Fra gli ospiti, rasentando i muri come un gatto siamese Monica, l'imbucata, entrata alla festa in modo rocambolesco sotto le spoglie di un’addetta al catering.

Il suo volto androgino non passava inosservato, la sua bellezza rigorosa anche. L'avessero riconosciuta sarebbe successo un putiferio.

 

Vestita di nero, si muoveva con un vassoio in mano sul quale erano appoggiati calici di cristallo di Boemia colmi di bollicine. Con occhio vigile, lo sguardo rapido e sorrisi di facciata si aggirava con destrezza fra gli invitati.

Osservava i gesti del duca, le pause prima di parlare, le risate forzate che duravano un secondo di troppo.

 

E poi successe.

 

Lo trovò da solo nello studio davanti all'armadio in noce scuro, il suo tabernacolo privato.

Lui avvertì la sua presenza ancor prima di voltarsi.

“Sapevo che saresti venuta,” disse senza alcuna inflessione nel tono di voce.

“Non ho resistito, non potevo, non volevo”, rispose.

 

Si fissarono. Due predatori che si annusano in attesa della prima mossa.

 

Monica si avvicinò senza paura, puntandolo dritto negli occhi, occhi che non tradivano alcuna emozione, nei quali lei avrebbe potuto annegare. La tensione tra loro rasentava l'eccitazione, “Ho letto tutto. Ogni rapporto, ogni nome, potrei ripetere a memoria ogni maledetta riga dei verbali. Ho contato i giorni uno ad uno, confondendomi con una tastiera, nascondendo i miei pensieri e mascherando i miei sentimenti".

Con un sorriso di veleno e miele, il duca riprese “Adesso sei qui nella mia tana, come una ladra che cerca un tesoro". Il suo fiato era caldo, lui si avvicinò ancora di più accostando la bocca all'orecchio “Tu sai la verità, la conosci … la verità. Cos'è la verità se non un insieme di bugie? Io Giovanni Arturo Agostino Edoardo di Quintavalle confesso di essere il predatore di anime perdute”. “Domani, comunque vada, sarà tutto finito” le disse.

Si avvicinò all'armadio e lo aprì. Dopo qualche minuto, armeggiando fra pulsanti invisibili e camuffati, il duca prese la scatola delle meraviglie deponendola su un tavolino a fianco. Come una furia lei gli si scagliò contro, lui rimase immobile, senza opporre alcuna reazione. La strinse a sé in un abbraccio, accarezzandole I capelli. “Ho sognato questo momento per troppo tempo Monica, figlia mia, non potrei mai farti del male”. “Sei sempre stato dentro di me, nessuno ha mai sospettato nulla, abbiamo fatto tutto insieme papà, ti piaceva assecondare i desideri della tua bambina. Io mi scopavo quelle troie e tu finivi il lavoro per me. Eccole, ecco quello che rimane di loro, è tutto racchiuso in questa scatola.

Domani mi condanneranno senza uno straccio di prova, domani sarà tutto finito”.

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