Sandro e io eravamo cresciuti insieme.

Insieme avevamo percorso la strada che conduceva a scuola, insieme rubato le caramelle dal droghiere, insieme sbirciato la Giusi quando, uscendo da casa, si aggiustava le calze a rete. Se ritenete tutto questo banale, vuol dire che non siete mai stati ragazzi o che non avete mai avuto veri amici.

A un certo punto, Sandro se n’era andato.

Ricordo bene quel giorno: mi aveva salutato con una pacca sulla spalla, dicendomi che, presto o tardi, si sarebbe fatto vivo di nuovo.

Ero rimasto lì, fermo all’ombra del grande palazzo scrostato che si trovava alle mie spalle, e l’avevo guardato allontanarsi.

Dopo era cominciata la vita da adulto; quella che succede intanto che impari a sbaciucchiare le ragazze, a farti la barba, a guidare la macchina, a cercarti un lavoro, a contare le rate del mutuo, a dirti che quella che ti trovi accanto è la tua donna o, almeno, ciò che più le si avvicina.

Sono scivolati via trent’anni, ma quando, qualche sera fa, Sandro ha bussato di nuovo alla mia porta, è stato come se fossero solo trenta minuti.

L’ho fatto entrare, lui si è seduto sulla poltrona che dà le spalle alla finestra, e abbiamo cominciato a parlare dei vecchi tempi.

Alle sette, quando mia moglie è rientrata dall’ufficio, stavamo ancora parlando.

Mi aspettavo che Claudia si lamentasse e, per un secondo, quando ho scorto un brillio nei suoi occhi neri, credo che sia stata sul punto di farlo, ma non è andata così.

Sandro si è fermato a cena ed è sembrato naturale che occupasse il mio posto, quello da dove mi piace sbirciare il rettangolo di prato che si scorge dalla finestra della cucina.

Credo che tutti siano andati alle cene con l’amico d’infanzia del coniuge, quelle in cui vi accorgete che gli altri due si trovano in un posto che a voi non è dato raggiungere.

Comprendete allora che vi sono luoghi, nell’animo di colui che credete di amare e conoscere, che vi sono e vi saranno interdetti per sempre, benché altri vi abbiano accesso; zone simili a città perdute, sommerse dalle sabbie del tempo.

Sandro è tornato la sera dopo, e anche quella successiva, e quell’altra ancora.  

Claudia lo ha accettato, adattandosi a quella nuova abitudine così come ci si adatta a portare la cravatta o il tallieur, che non sono il massimo della comodità ma sono necessari, forse perché qualcuno sostiene che siano eleganti.

Una parte di me diceva che avrei dovuto esserle grato e un’altra, invece, bisbigliava che, segretamente, mia moglie aveva preso a compatirmi, forse perché ad un marito che aveva perso il lavoro, l’indipendenza economica, la salute e la sicurezza in sé stesso, non necessariamente in quest’ordine, non era dato riservare altro sentimento che la pietà.

Non erano questi, tuttavia, i pensieri che occupavano i miei giorni, trascorsi, si può dire, nell’attesa dei passi di Sandro per le scale.

Riflettevo sugli anni passati, piuttosto, sull’odore dei fuochi di sterpi accesi nei campi di periferia, sulle corse rumorose per le strade dopo aver suonato i citofoni di un intero condominio, su come il vecchio Filotti, il prof d’italiano, fosse un giorno caduto dalla sedia durante una lezione particolarmente noiosa.

Ripescavo quei ricordi, cercandone l’esattezza, la purezza, attendendo Sandro per confrontarli e ritrovare, così, il gusto di quella meraviglia che chissà se era esistita davvero o se era piuttosto una consolatoria menzogna creata dalla lente deformante del tempo.

Avevo rinunciato al lavoro, ormai, sprofondando in pause sempre più lunghe ed inerti tra letture di un’inserzione ed un’altra, tra un colloquio ed un altro; strette, gelide catene di un presente cui sentivo di appartenere sempre meno.

Stavo rinunciando anche a Claudia, ma senza rancori, rabbia o amarezze; semmai solo con una punta di rimpianto, così come accade quando, al termine di un viaggio, si saluta una compagna con cui si sono trascorse ore piacevoli, ma che già si è deciso di confinare nel regno di ciò che avrebbe potuto essere, ma non sarà.

Anche lei, del resto, si era affezionata a Sandro e, sempre più spesso, la sorprendevo ad osservarlo mentre lui guardava il rettangolo verde dal giardino fuori dalla nostra finestra, proprio come, un tempo, ero solito fare io.

Capitava allora che mi sentissi io, l’ospite, quasi che per tutta la vita da adulto, se non la vita intera, avessi vissuto in un mondo che non era il mio, che mi aveva tollerato, che era stato cortese con me, ma che era giunto il momento, alfine, di lasciare.

Era quello in cui avevo vissuto con Sandro, il mio mondo, Sandro che stava dalla parte della strada illuminata dal sole, mentre io mi trovavo in quella all’ombra, coperta dalla mole del palazzo scrostato, Sandro che era tornato, Sandro che non mi aveva tradito, né lasciato, né lo avrebbe fatto mai.

Per questo non era lui quello che scoprii a letto con Claudia una notte che, sentendomi più stanco del solito, mi addormentai sulla poltrona del salotto, lasciandolo a chiacchierare con mia moglie in cucina.

Non era lui quello che uccisi con otto coltellate, l’ultima delle quali così violenta da trapassare lo sterno e inchiodarlo al letto, come se fosse stato crocifisso.

Era Claudia che avevo ucciso, invece, e solo dopo che me l’ebbero detto mi resi conto che era lei, perché non riconoscevo più la donna che avevo sposato e forse non l’avevo mai conosciuta né sposata ed avevo sposato, invece, la Giusi, che si aggiustava le calze a rete uscendo da casa, segretamente consapevole delle mie occhiate furtive.

Non era Sandro, no, perché lui esisteva davvero e non era un amico immaginario, come mi avevano detto nel palazzo scrostato dove mi avevano rinchiuso dopo che avevo fatto quelle cose a mio padre e mia madre.

Non era Sandro perché lui verrà anche stasera, e sarà mio ospite e parleremo dei vecchi tempi.

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