Nel silenzio cosmico, un mormorio si levò, antico quanto le stelle stesse. Non era un suono, né una parola: era una vibrazione, un pensiero condiviso, un impulso primordiale che danzava tra galassie e nebulose, un eco senza tempo che narrava la storia di ciò che siamo. 
Erano i Custodi a parlarne, entità eteree che osservavano il flusso della creazione. Invisibili agli occhi umani, essi erano le mani che tessono la trama dell’universo, legando ogni essere a un destino comune. Fu uno di loro, Antares, a sollevare la questione che da eoni rimbalzava tra le dimensioni: <<Cosa sono gli esseri umani? Perché esistono?>>
Una risposta non immediata, ma un viaggio, uno studio continuo. Antares, curioso e instancabile, si immerse nella memoria cosmica, dove erano incisi i ricordi della Terra e dei suoi abitanti.
L’umanità era nata molto prima di quanto i terrestri immaginassero. Non figli del caso, ma della volontà. Essi erano frammenti di stelle, scintille di luce intrappolate in involucri di carne. Ogni vita umana era un atto di reincarnazione, un ritorno ciclico, un passo verso l’evoluzione spirituale. Il corpo era solo un veicolo; l’anima, la vera essenza, migrava di esistenza in esistenza, portando con sé un bagaglio di memorie e lezioni.
<<Il karma e il dharma li guidano.>> Rifletté Antares. 
<<Ma essi dimenticano. Si perdono nel caos della materia, smarriscono la connessione con il tutto. Eppure, non si arrendono mai.>>
Una volta, molto tempo fa, Antares aveva osservato una vita terrena. Si trattava di Mira, una giovane donna nata nel tumulto del ventesimo secolo. Cresciuta tra guerre e disillusioni, Mira cercava risposte. Era convinta che la sua esistenza non fosse frutto del caso. La sua anima, così come quella di molti altri, si dibatteva nel desiderio di capire perché era qui.
Ogni notte, Mira sognava. Non erano sogni comuni, ma visioni di mondi lontani, di stelle morenti e galassie in espansione. Una notte, vide una scala d’oro che si snodava verso un’infinità luminosa. Al culmine, c’era un essere di luce che le parlava senza parole:
 <<Tu sei qui per ricordare chi sei.>>
Mira si svegliò con la consapevolezza che doveva cercare. La vita terrena era una scuola, dove ogni anima veniva per apprendere le leggi dell’amore, del perdono e della compassione. Tuttavia, ciò che rendeva speciale l’umanità era la sua libertà. A differenza di altre forme di vita nell’universo, gli esseri umani avevano il dono del libero arbitrio, una forza potente e pericolosa. Potevano scegliere di costruire o distruggere, di amare o odiare, di elevarsi o cadere.
<<Ma perché dimenticano?>> Si chiese Antares, osservando le vite che si susseguivano. Era una domanda a cui nemmeno i Custodi potevano rispondere completamente. Tuttavia, c’era una certezza: il dimenticare era parte del piano. La dimenticanza era la tela su cui ogni essere doveva dipingere il proprio destino. Attraverso il dolore e la gioia, l’anima umana trovava la sua strada verso la luce. Le reincarnazioni di Mira continuarono, intrecciandosi con quelle di molte altre anime. Ognuna portava un frammento di comprensione, un tassello del grande mosaico. Mira rinacque innumerevoli volte: come guerriera, artista, contadina, scienziata. In ogni vita, incontrò persone con cui aveva un legame karmico, debiti o doni da scambiare. 
In una delle sue vite, fu Asha, una saggia curandera che viveva in una remota vallata. La gente la chiamava “Figlia delle Stelle” per via dei suoi occhi luminosi e delle sue conoscenze misteriose. Asha parlava spesso di reincarnazione e di come ogni anima avesse un compito unico.
<<Il dharma è la nostra missione divina.>> diceva ai suoi allievi. 
<<Non è sempre chiaro, ma è inciso nel nostro essere. Chi lo segue trova pace; chi lo ignora, trova conflitto.>>

Attraverso Asha, Mira sperimentò l’armonia. Ma anche quella vita terminò, e l’anima riprese il suo viaggio. Ogni incarnazione era un capitolo di una storia più grande, una storia che si snodava non solo sulla Terra, ma nell’intero universo. Antares continuava a osservare. Vide l’umanità affrontare sfide sempre più grandi: guerre, pandemie, crisi climatiche. Ma vide anche atti di amore e di coraggio che sfidavano ogni logica. Gli umani erano un paradosso vivente: fragili e potenti, egoisti e altruisti, persi eppure destinati a trovare la via. Un giorno, Antares decise di scendere tra loro. Non come Custode, ma come essere incarnato. Si fece uomo per comprendere veramente il loro viaggio. Scelse una vita umile, quella di un insegnante in una piccola città. Lì, tra i bambini e i loro sogni, trovò la risposta che cercava.
<<Essi esistono per amare.>> Comprese Antares. 
<<Non c’è altro scopo più grande. Attraverso l’amore, essi si riconnettono all’universo, ricordano di essere scintille di luce.>>
Alla fine della sua vita terrena, Antares tornò tra i Custodi, portando con sé una nuova consapevolezza. Raccontò della bellezza degli esseri umani, della loro infinita capacità di risollevarsi, di creare e di connettersi. Raccontò delle loro contraddizioni, che non erano difetti, ma sfide necessarie per crescere. Il mormorio cosmico continuò, ma ora aveva una nota diversa, più profonda e vibrante. Era la nota dell’umanità, un coro di voci uniche che cantavano insieme. Ed era un canto di speranza, un inno alla vita, una promessa che, un giorno, avrebbero ricordato chi erano davvero: figli delle stelle, pellegrini dell’eterno, frammenti di infinito.

 

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