Non meno importante infine è il toccare per non atterrirsi, quindi per cacciare, cacciar le proprie paure intendo. E più uno scacciare in realtà, depurato cioè dalla valenza belluina della caccia. E’ quello che fa lo scaccino, che congeda sì fedeli e disturbatori ben sapendo però che il giorno dopo si ripresenteranno sui banchi ecclesiali, e non ne può far meno perché sa che gli stessi sono parte integrante della chiesa, sono dei fedelissimi insomma. Così è per le nostre paure: le fughiamo, le esorcizziamo, le mettiamo alle strette, le teniamo alla larga, ma sappiamo che seguiteranno ad aleggiare nei nostri pressi, può darsi cangiando forma e colore, profilo o ghigna, ma rimarranno lì a guatare fingendosi immacolate.

A che pro quindi tentar di neutralizzarle quando esse, come i fedeli per la chiesa, sono per noi navata e pulpito, banco e pisside? Da che pulpito potrei argomentar diversamente? Certo si palpita ad aver paura, ma quante volte c’insegnano a dover convivere con le nostre paure, con le nostre ansie, con i nostri fantasmi... Ed ecco quindi la soluzione: il palpeggiare. Il tastare colui con cui si convive è in fondo operazione tutt’altro che remota. Certo, palpare dei fantasmi potrebbe essere un po’ scomodo, e ancora di più quelli del passato; qualcuno poi ci vedrebbe una molestia pure là: è da intendersi però in senso figurato, sperando in una bella figura, e se tale figura non è di nostro gradimento ci possiamo pure defilare, senza scontrarci con nessuno. Ma pensateci bene: prima flirtiamo e poi ci eclissiamo? Che figuraccia.

Sta di fatto che il toccare, il mettere le mani, innegabilmente delimita e quantifica, ci aiuta in questo mondo di toccati a soppesare chi lo è di più e chi di meno. Che poi è strano: com’è possibile che in un mondo di toccati molto spesso invece si guarda solo e non si tocca? Da chi mai quindi saremmo toccati? A meno di non partecipare alle rimpatriate al mare quando ci incitano: venite, qua si tocca. Il problema piuttosto è non toccare il fondo, ma quante volte passiamo dal fondo al cielo, e viceversa? Lo ammetto, la questione mi tocca da vicino.

Può darsi poi che la vera paura sia proprio il rifiuto del tocco. Che tocchiamo a fare se il nostro corrispondente ci negherà il benché minimo contatto? Oddio, a volte si teme di urtar l’altrui sensibilità: è un po’ la tesi di mia figlia quando dice di non aver toccato libro. Alle strette, la paura acché il nostro tocco sia negletto: la si accetti ammainando il nostro arto toccante o la si superi imponendo ugualmente quel tocco? Dipende pure dalla controparte, affermerei. Noli me tangere, disse qualcuno: si pone quindi un problema di autorevolezza?

Eppure il contatto è il basamento societario, è un po’ come il pagamento, è insomma un comandamento del nostro vivere in comune. Con le vite aliene si parla di primo contatto, e non è mai un atto scellerato: lo si fa infatti sempre con tatto, e lo si deve fare persino con aguzzini e tiranni, se vite e palazzi vogliamo salvare.

Riadoperiamoci a toccare quindi, sempre con garbo beninteso, ma facciamolo che diamine, senza vergogna e pena.

Mettiamo al bando le cose virtuali, che tra un po’ non sapremo nemmeno più carezzar il manto rugoso di una mela di campo.


 

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